Ieri, dopo sette mesi di caldo estivo, l’autunno finalmente ha osato presentarsi a Palermo per reclamare i suoi diritti negati e conculcati. In realtà l’autunno qui ha poca ed effimera fortuna e di fatto viene già assimilato all’ “inverno” (stamattina vedo dalla finestra gente infreddolita e vestita come al Polo Nord nonostante gli attuali 15°).
L’intensa perturbazione che ha attraversato l’isola mi ha ricordato l’epoca lontana in cui, a Bagheria, ogni perturbazione atmosferica (anche minima e innocua) provocava immancabilmente un black-out elettrico.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, all’inizio delle vacanze di Natale, i miei genitori ed io arrivavamo in Sicilia da Genova con il Treno del Sole: dopo ventiquattr’ore di interminabile viaggio il direttissimo entrava sferragliando alla Stazione Centrale di Palermo.
Ma per noi il viaggio non era ancora finito; infatti, ammesso che il treno arrivasse in orario (cosa rara), c’era ancora da raggiungere Bagheria. Al “transfer” (oggi si direbbe così) pensavano gli eroici parenti che ci venivano a prendere, in un’epoca in cui, per i congiunti “prelevanti”, non esisteva nessuna notizia attendibile su dove fosse arrivato il treno; a volte quindi – mischinazzi – aspettavano per ore, approfittandone per una passeggiata in via Roma.
Ricordo, quando scendevamo disfatti dal lungo viaggio, gli abbracci, i baci, i “come è fatto grande” che mi erano indirizzati.
Ricordo il sonno tenace che (specie quando ero piccolo) mi chiudeva gli occhi quando salivo sulla macchina che ci portava in paese, con lo sfondo delle chiacchiere dei parenti con i miei genitori, tutte rigorosamente in fitto dialetto “baarioto”.
E ricordo l’arrivo a Bagheria, in via Leonforte, in casa della nonna paterna.
Ebbene, ogni anno, immancabilmente, all’arrivo (in genere dopo le 23) mancava la luce.
Ricordo dunque le ombre dei parenti che ondeggiavano alla luce tremula delle candele. E a lume di candela, in modo ben poco romantico, si cenava (a qualsiasi ora fossimo arrivati, anche alle due di notte). Poi a notte fonda si andava a letto a tentoni nella stanza in soffitta (le case di paese si sviluppavano in verticale), nel silenzio rotto soltanto dall’abbaiare dei cani nelle strade o dalle raffiche del vento.
«Ah! ’A luci livàru» è stata la frase più ricorrente a Bagheria fino agli anni Sessanta.
La luce andava via per il passaggio di un moscerino, per un refolo di vento, per un piccolo guasto improvviso; e tornava dopo ore.
Ma perché si diceva «’a luci livàru» (cioè “hanno tolto la luce”) anziché «’a luci si ‘nni jiu» (“se ne è andata la luce”)? Chi era il soggetto di quel “livàru”?
Oggi, riflettendo su questo dettaglio, ipotizzo che in quel soggetto imprecisato la gente comune incarnasse un potere (come sempre da queste parti) lontano, impersonale, impalpabile, che però incideva (eccome!) sulla vita quotidiana delle persone. Quelle eteree entità capaci di “togliere la luce” alla gente vivevano, forse, in abbaglianti spazi luminosi, in un’altra dimensione dove il buio era sconosciuto; e il buio, invece, lo destinavano e lo dirottavano a chi ci era abituato, forse da secoli.
Quando la mattina dopo uscivo con mio padre e giravamo per le strade del paese, mi colpiva il fango onnipresente.
Ai tempi della mia infanzia e adolescenza, molte strade a Bagheria non erano ancora asfaltate: se pioveva, dunque, si creava una palude stigia ubiquitaria, in cui era facile impantanarsi. Ricordo le scarpe che, al ritorno a casa, venivano deterse con vigorose spazzolate dallo strato di fango che le aveva cosparse.
In molte strade esisteva una “canaletta” al centro della via, in cui capitava che fossero svuotati i secchi d’acqua (i pedoni di passaggio dovevano prestare attenzione per non essere innaffiati); nelle giornate di pioggia la “canaletta” diventava un emulo pericoloso del Po in piena, strabordando d’acqua piovana (e non) e rendendo arduo il cammino.
Inutile ribadire che, finché il maltempo non passava, la luce andava e veniva; poco male in un’epoca in cui ancora i frigoriferi erano alle prime armi, i freezer o non esistevano o non erano usati (la spesa si faceva ogni giorno), gli elettrodomestici erano pochi ed essenziali (la radio e la televisione essenzialmente).
Del “black-out” (che allora nessuno chiamava così) pochi si lagnavano, sentendola come una condanna perenne, incomprensibile ma inevitabile. A quella ricorrente “oscurità” si era abituati, si era attrezzati per conviverci, si era rassegnati a sprofondarci; era anche un modo per rallegrarsi (magari troppo presto) quando la luce veniva miracolosamente e imponderabilmente ripristinata dalle oscure autorità a ciò delegate.
Il grido liberatorio «’A luci tornò» tendeva però, in genere, ad assegnare il ripristino della normalità alla luce stessa (tornata chissà come ad affermare i suoi diritti) e non ai suoi misteriosi gestori.
Negli anni Settanta il vecchio ritornello («Ah! ‘A luci livaru!») continuò a risuonare nelle case bagheresi, forse un po’ meno assiduo ma ancora tenace; solo che alle candele molti cominciarono a unire alcuni grossi lanternoni a pile, che venivano orgogliosamente mandati in campo in caso di improvvisa interruzione dell’energia: la loro pallida luce biancastra rendeva tutte le sagome simili a evanescenti fantasmi.
Si rallegrino, le giovani generazioni, bagheresi e non, di vivere ormai nella luce, almeno nella luce elettrica.
Si sono sottratti (non si sa come) al dominio di quelle pestifere entità impersonali che “levavano la luce”; ma – se devo dirla tutta – non è che si trovino a vivere in un’epoca così “illuminata”.
Del resto, non si può avere tutto nella vita…
Palermo, 21 novembre 2022
P.S.: Aggiungo una preziosa integrazione all’argomento, fornitami da Domenico Sciortino, come sempre fonte inesauribile e insostituibile di informazioni storiche.
Domenico Sciortino – Ricordo che negli anni del dopoguerra e fino al 1962 quando la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica è stata nazionalizzata con l’istituzione dell’Enel, questa attivitá era svolta da privati. A Bagheria titolare dell’appalto era un certo Rosolino Gagliardo che aveva la sede sulla SS 113 (via Ramacca) ai nn. 146-148. A questo signore erano dirette tutte le imprecazioni e le parolacce le più impensate quando ” LIVAVANU A LUCI”. Gli impianti elettrici cittadini sia quelli della pubblica illuminazione sia i fili che portavano la corrente dentro le abitazioni erano obsoleti e mal ridotti sia per la loro vecchiaia sia per l’assenza di manutenzione. Pertanto ad ogni minima goccia di acqua piovana andava tutto in cortocircuito e “LIVAVANU A LUCI “. Sui fili elettrici esterni, prima di immettersi dentro le case, era montata una specie di valvola-salvavita in ceramica a forma di spoletta della lunghezza di 5-6 cm. con due scanalature ai lati sulle quale passava, da un lato il polo neutro del filo e dall’altro lato il filo fase interrotto ma unito da un filo sottilissimo di rame che fondeva ad ogni minimo sbalzo di corrente interrompendone il passaggio e quindi “A VAIBULA SATÓ” lasciando al buio l’abitazione. Si provvedeva immediatamente, con un altro pezzettino di filo di rame, a ricollegare i due lembi di filo positivo consentendo nuovamente il passaggio della corrente. Questa operazione era molto pericolosa perché si rischiava di essere fulminati sebbene allora la potenza elettrica fosse di 125 volt. Vero è, caro Mario, che molte strade non erano asfaltate, non ce ne era nemmeno una perché questo materiale “l’asfalto”, nel periodo a cui ti riferisci, non era ancora arrivato. Le strade erano quasi tutte acciottolate con al centro la canaletta. Ve ne erano molte altre in terra battuta. La terra non era altro che il rifiuto delle cave di tufo di Aspra ” U STIERRU “. I corsi Butera ed Umberto I alla fine degli anni ’40 sono stati pavimentati con mattonelle d’asfalto.