Dalla prima domenica di Avvento del 2020 è cambiato il Messale Romano; ciò ha implicato anche una modifica del testo del “Gloria”. Nella nuova formulazione infatti si legge: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini, amati dal Signore” (con sostituzione della precedente formula: “pace in terra agli uomini di buona volontà”). Parallelamente, nel “Padre Nostro”, anziché “non ci indurre in tentazione” ora si legge “non abbandonarci alla tentazione”.
Limitando il discorso al “Gloria”, ci si può chiedere: perché è stata apportata questa modifica? e perché è stata necessaria anche un’inserzione di punteggiatura (la virgola prima di “amati”)?
Il testo proviene dal Vangelo di Luca (2, 13-14): nella notte di Natale un angelo annuncia ad alcuni pastori la nascita di Gesù: «E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che inneggiava a Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini (oggetto) della sua benevolenza”» (Δόξα ἐν ὑψίστοις θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκίας, trad. Rossano). La traduzione latina è: “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis”.
Soffermiamoci sul testo greco, che alla lettera significa: «Gloria a Dio nelle altezze e sulla terra pace tra gli uomini “della eudokìa”».
Che vuol dire in greco “eudokìa” (εὐδοκία)?
Questo lemma viene sbrigativamente liquidato dal vocabolario GI di Montanari con tre significati, tutti documentati in epoca ellenistica ed imperiale: 1) “buona volontà”; 2) “approvazione, consenso, favore”; 3) “piacere, delizia”.
Ancora più caotico e frettoloso è il Rocci, che accatasta in due righe diversi significati (“buona volontà, intenzione, desiderio, brama, compiacenza, benevolenza”) senza un puntuale rimando ai passi che li contengono.
Tuttavia, leggendo il Nuovo Testamento, appare evidente che “eudokìa” viene usato spesso per indicare non tanto la buona disposizione degli uomini, quanto quella di Dio e il suo disegno d’amore verso gli uomini: come si legge in un passo dalla lettera agli Efesini di San Paolo (1, 5), «È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (θεὸς γάρ ἐστιν ὁ ἐνεργῶν ἐν ὑμῖν καὶ τὸ θέλειν καὶ τὸ ἐνεργεῖν ὑπὲρ τῆς εὐδοκίας). Sempre in Luca, poi si trova la seguente esclamazione di Gesù: «Ti rendo lode, o Padre, […] perché così hai deciso nella tua benevolenza (ὅτι οὕτως εὐδοκία ἐγένετο ἔμπροσθέν μοι)» (10, 21).
Ora, il sostantivo greco “eudokìa” si collega evidentemente con il verbo “eudokèo” (εὐδοκέω) che vuol dire “compiacersi, essere soddisfatto, approvare”. Questo verbo è usato in un altro famoso brano evangelico, quello in cui Luca narra il battesimo di Gesù nelle acque del Giordano: «e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Σὺ εἶ ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἐν σοὶ εὐδόκησα)».
A questo punto appare evidente che in senso teologico “eudokìa” è, senza dubbio, il “compiacimento” di Dio verso gli uomini.
Il papa emerito Benedetto XVI (in Dio rivela il suo “disegno di benevolenza”, 5 dicembre 2012, in DISF, Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede) sottolinea, in base al passo precedentemente ricordato, come l’uomo “del compiacimento” sia anzitutto Gesù. Infatti, come precisa Ratzinger, «La traduzione letterale, “gli uomini del compiacimento”, ha il pregio di indicare sia l’iniziativa gratuita di Dio, sia la risposta dell’uomo, chiamato ad entrare in questo compiacimento, attraverso la buona volontà, cioè una volontà conforme a quella divina». Dunque la “eudokìa” va intesa con una duplice accezione: la “buona disposizione” divina si unisce alla “buona disposizione” umana ad accettare il “compiacimento” divino.
Se è così, la nuova traduzione del Messale (“pace in terra agli uomini, amati dal Signore”) ha invece deciso in modo unilaterale di attribuire la “eudokìa” solo a Dio e non anche agli uomini.
Ciò va anche in direzione opposta alla traduzione latina in terra pax hominibus bonae voluntatis, che lascia invece aperta la duplice interpretazione:
1) nella funzione dichiarativa-epesegetica, il genitivo bonae voluntatis specifica il sostantivo che lo precede (cioè, “gli uomini che sono oggetto della benevolenza/buona volontà di Dio”);
2) come genitivo di qualità invece, indica una qualità morale di tali uomini (grosso modo “gli uomini che hanno la qualità di compiacere Dio, di riceverne la benevolenza”).
Per avere ulteriori lumi e chiarimenti sulla nuova traduzione del “Gloria”, ho consultato il dott. Gaetano Festa, ex DSGA del Liceo Umberto I di Palermo, presbitero cristiano (con il nome di Padre Giovanni) nella tradizione ortodossa e secondo prete a supporto della Parrocchia San Caralampo martire a Palermo (Eparchia Ortodossa Romena in Italia).
Le informazioni che mi ha prontamente fornito, con la sua consueta vastissima competenza, dall’alto della sua grande preparazione teologica e culturale in senso lato, mi sono state di grande aiuto per mettere meglio a fuoco il problema; di questo lo ringrazio tantissimo.
Il dott. Festa cita la “Grande Dossologia” (μεγάλη δοξολογία), un antico inno che chiude l’officiatura mattinale (Orthros) e apre quella della Divina Liturgia; esso, laddove è possibile, viene cantato quando i raggi del sol levante entrano nel santuario, simboleggiando così la totale e reale presenza di Cristo nella sua Chiesa, quale luce senza tramonto. In particolare, «in questo progetto cosmico della Theosis/divinizzazione del creato tutto la doxologia del Mattutino come inno alla luce riprende e porta a compimento l’unità teandrica di ogni particella del nostro pianeta e dell’intero cosmo».
Eccone il testo iniziale: «Gloria a te che ci hai mostrato la luce! / Gloria a Dio nel più alto dei cieli, pace sulla terra, e per gli uomini benevolenza».
Come scrive Festa, «si canta l’alleanza eterna tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio; in questa e per questa alleanza Dio viene glorificato e agli uomini viene annunciata la speranza della divinizzazione, della riconciliazione. Nella vita concreta e quotidiana la pace di Dio ha pieno orizzonte di senso solo se vissuta con l’eudokìa, con l’aprirsi dei nostri cuori a Dio. “Buona volontà” non può restare nel linguaggio quotidiano, per quanto serio, del buon comportamento umano e delle nobili intenzioni nell’agire ma eudokìa è il “buon volere “di Dio verso noi tutti senza limiti e senza confini: gli uomini della benevolenza del compiacimento”/gli uomini a cui Dio annuncia ed egli stesso vive il suo compiacimento».
Non mancano altre attestazioni di questa “benevolenza” proveniente da Dio: Sant’Agostino, nel Discorso 193 sul Natale del Signore, insisteva sulla necessità di una buona volontà per ricevere la pace donata dall’alto; inoltre, come affermava Leone Magno nel suo IX Discorso sul Natale, la vera pace degli uomini «consiste nel non separarsi dalla volontà di Dio e nel dilettarsi solo nelle cose che Dio ama».
Ad ulteriore conferma, il dott. Festa nota che il termine eudokìa viene usato per tradurre una parola ebraica che indica in genere la benevolenza divina nei confronti degli uomini. La parola «eudokia», infatti, è un modo frequente con cui i “Settanta” (l’antica traduzione greca dell’Antico Testamento) traducono la parola רָצוֹן rāṣôn o il verbo correlato רָצָה rāṣāh, che significa «benevolenza», «compiacimento», nella maggioranza dei casi con Dio per soggetto. Il termine può anche essere riferito ad esseri umani, ma sempre nello stesso senso di «benevolenza» che qualcuno ha nei confronti di qualcun altro. Anche un passo dei testi dei manoscritti biblici di Qumran (4 QH 32) parla dei “figli della grazia divina”, espressione che sembra il modello del passo di Luca.
In definitiva, continua Festa, nel “Gloria” «tutta la frase procede secondo una simmetria studiata: la Gloria riservata alla Maestà di Dio che risiede nell’alto dei cieli si riflette sulla terra nel benessere (“pace” nel senso biblico, benessere spirituale e materiale) che raggiunge gli uomini toccati dalla sua grazia. Anziché uno sforzo moralistico che nasce dall’interiorità dell’uomo il testo biblico sembra fare appello a un messaggio universale di salvezza che viene annunciato attraverso gli uomini che Dio sceglie come tramite: la buona volontà è dunque il traboccare della gloria che scaturisce dall’altissimo dei cieli e si riversa sul creato».
“Padre Giovanni” riferisce infine che alcune chiese ortodosse in Italia, nelle quali viene dato ruolo ministeriale anche alla lingua italiana, hanno proposto due traduzioni (“negli uomini la benevolenza” e “negli uomini la buona volontà”), pronunciandosi personalmente a favore della seconda: «Tale ultima traduzione come esperienza pastorale ed ecclesiale ma anche teologica nei miei sedici anni di parroco (sui miei 24 di ordinazione presbiterale) mi sembra meglio rispondere all’armonia/sinfonia della reciprocità della relazione, sempre triadica, tra il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe e Gesù di Nazareth e ciascuno di noi».
Luisella Scrosati in un articolo del 2018 (“L’analisi del nuovo Messale – Gloria e Padre Nostro, traduzioni e criteri errati”, cfr. https://lanuovabq.it/it/gloria-e-padre-nostro-traduzioni-e-criteri-errati su “La nuova bussola quotidiana”) contesta la nuova traduzione italiana del “Gloria”. Infatti, a suo parere, nel nuovo Messale «una correzione si sarebbe dovuta fare nel senso di “suo compiacimento”, “sua benevolenza”, non introducendo il verbo amare, troppo generico in questo caso»
Inoltre, secondo Scrosati, i traduttori si sarebbero dovuti attenere all’Istruzione Liturgiam Authenticam (LA) del 2001, che fornisce i criteri per una corretta traduzione dei testi liturgici; tale Istruzione richiede anzitutto che le traduzioni siano fatte “direttamente dai testi originali cioè dal latino, per quanto attiene a testi liturgici di composizione ecclesiastica, dall’ebraico, aramaico o greco, se è il caso, quando si tratta di testi delle sacre Scritture”; ciò avrebbe dovuto indurre a tenere come testo di riferimento la traduzione latina (et in terra pax hominibus bonae voluntatis), che appartiene appunto sia al testo liturgico latino che alla Neo-Vulgata. Non solo: l’Istruzione invita a proporre traduzioni che “siano conformi all’interpretazione dei passi biblici trasmessa dall’uso liturgico e dalla tradizione dei padri della Chiesa”, evitando dunque rotture con tradizioni inveterate (basti considerare che l’espressione “agli uomini di buona volontà” è ormai entrata nell’uso comune). Infine, sarebbe stato opportuno porre maggior attenzione al n. 40 di LA: “nel rispetto dei postulati di una sana esegesi, si ponga ogni cura per mantenere la formulazione dei passi biblici comunemente usata nella catechesi e nelle orazioni della devozione popolare”.
Un’ultima considerazione.
La nuova traduzione preferita dalla Chiesa, riferendo la “buona disposizione” a Dio, è stata resa in italiano con “pace in terra agli uomini amati dal Signore”. Ma ben presto ci si è accorti che questa resa aveva un problema: la pace sembrava riservata solo a una categoria di uomini (quelli “amati dal Signore”), fra l’altro senza una motivazione esplicita di questa “preferenza”. Da qui l’inserzione della virgola (“pace in terra agli uomini, amati dal Signore”) che riconduce l’amore di Dio all’universalità: “pace in terra agli uomini, (che sono tutti) amati dal Signore”.
Ora, la punteggiatura era assente dagli antichi testi greci (che non a caso erano disseminati di particelle, μέν / δέ e molte altre, per fissare dei “paletti” che dessero ordine al discorso). Dunque, l’inserzione di una virgola è possibile e lecita, ma sicuramente non ha nulla di “scientifico” e dimostra la palese difficoltà di una modifica efficace dell’antico testo tradizionale.
Non meno complesso sarebbe il discorso sulla nuova traduzione del “Padre nostro”; ma lo rinviamo a un’altra occasione.
C’è in giro qualcuno che ha il gusto degli interventi inutili. Bastava lasciare com’era. Idem per Padre Nostro e altro. Non agire se non serve. Basta capricci.