La casa del fantasma in Plinio il Giovane

Nella tradizione antica non mancavano le storie di fantasmi: basti accennare qui all’apparizione del fantasma di Patroclo ad Achille nell’Iliade (XXIII, 62 sgg.), agli spettri nel teatro greco (come quello del re Dario nei Persiani di Eschilo), alla “resurrezione” del soldato Er in Platone (Repubblica X, 614b ss.), al fantasma immaginario della Mostellaria plautina, all’immagine sognata da Bruto prima dello scontro decisivo con Antonio e Ottaviano (cfr. Plutarco, “Bruto” 36), agli spettri di Ettore e Creusa apparsi ad Enea (Eneide II, 771 ss.), alla maga tessala Eritto che ridà voce, con orribili riti, a un cadavere (Lucano Bellum civile VI, 507 ss.); e sempre Lucano descrive l’ombra di Giulia, prima moglie di Pompeo, che appare all’ex marito e gli profetizza un infausto avvenire (III, 8 ss.).

Tutte queste fonti letterarie denotano sicuramente una diffusa credenza popolare nelle apparizioni dei fantasmi, ma rimangono in genere su un livello “alto”, spesso con profonde intenzioni filosofiche ed escatologiche. Ben più semplice e “quotidiano” è invece un episodio narrato da Plinio il Giovane, che riesce ad assumere le apparenze di una pagina di vita reale.

In una lettera (VII 27) al console Licinio Sura, uomo di grande cultura e collaboratore dell’imperatore Traiano, Plinio propone un tema di discussione che evidentemente lo intriga molto: «Io avrei un vivissimo desiderio di sapere se tu pensi che i fantasmi esistano davvero ed abbiano un loro proprio aspetto ed una qualche capacità di azione, ovvero che, pure vanità inconsistenti, ricevano una figura soltanto dalla nostra paura» (uso qui la traduzione di Francesco Trisoglio).

Probabile figura di Lucio Licinio Sura raffigurato nella Colonna Traiana mentre è con un generale

La lettera fu scritta forse intorno al 102, dopo la guerra dacica cui Sura aveva partecipato nello stato maggiore di Traiano.

Per rispondere al quesito che ha posto, Plinio inizia a riferire alcuni casi curiosi; anzitutto racconta un episodio capitato a Curzio Rufo (dubbiosamente identificabile con l’omonimo autore di una celebre Storia di Alessandro Magno).

Costui, quando era ancora “un personaggio insignificante e sconosciuto”, si era messo al seguito del governatore d’Africa; mentre al calar della sera passeggiava in un portico, gli apparve “una figura di donna che per maestà e bellezza superava le possibilità umane” (“mulieris figura humana grandior”); vedendolo terrorizzato, la donna gli disse di essere l’Africa e gli preannunciò il suo futuro: avrebbe ricoperto importanti magistrature a Roma, sarebbe tornato in Africa con il massimo potere e lì sarebbe morto. Ebbene, dice Plinio, “tutto si avverò” (“facta sunt omnia”).

La misteriosa apparizione rispetta il cliché tipico nell’antichità: le immagini soprannaturali avevano sempre dimensioni maggiori del normale: nell’Eneide Creusa dopo la morte appare al marito Enea come “nota maior imago” (II 773)  e secondo Svetonio la visione che apparve a Cesare presso il Rubicone fu “di eccezionale grandezza” (“eximia magnitudine”, Ces. 32).

Ma un fatto “più spaventoso e non meno stupefacente” accadde invece ad Atene.

L’esordio del racconto ha toni fiabeschi: «C’era ad Atene una casa ampia e ricca di ambienti, ma malfamata e funerea (Erat Athenis spatiosa et capax domus, sed infamis et pestilens). Durante il silenzio della notte si produceva un rumore di ferraglia che, se si prestava un’attenzione più concentrata, si identificava in uno stridore di catene dapprima più lontano e poi vicinissimo: tosto appariva un fantasma (mox apparebat idolon), un vecchio logorato dalla macilenza e trasandato nell’aspetto (senex macie et squalore confectus), dalla barba lunga e dai capelli ispidi (promissa barba, horrenti capillo); aveva i piedi imprigionati in ceppi e le mani strette in catene che scuoteva».

L’orrenda visione tormenta vari inquilini della casa, costretti all’insonnia e in certi casi alla morte di paura. Il ricordo della terribile apparizione era costante, anche nelle ore diurne: «anche durante la giornata, quantunque lo spettro se ne fosse andato, vagava ancora dinanzi agli occhi il ricordo dello spettro e la paura durava più a lungo delle cause della paura».

La casa resta dunque disabitata; il proprietario però vi appende un cartello, sperando che qualcuno la acquisti o per lo meno la prenda in affitto.

A questo punto «giunge ad Atene il filosofo Atenodoro», diversamente identificabile con due personaggi originari di Tarso (in Cilicia, la patria di S. Paolo), il primo dei quali prestò a Cicerone un sunto dell’opera di Posidonio sul dovere (cfr. Epist. ad Atticum XVI 11, 4), mentre l’altro fu amico di Catone Uticense (Plutarco, Catone Minore, 10 e 16).

Atenodoro, pur essendo un filosofo, ha i piedi per terra: «legge l’annuncio, si fa dire il prezzo: siccome gli sembravano sospette quelle condizioni così favorevoli, si informa per bene e viene a sapere ogni cosa; con tutto ciò, anzi, soprattutto per ciò, la prende in affitto».

Spinto dal desiderio di conoscere e da irresistibile curiosità, Atenodoro si appresta a passare la sua prima notte nella terribile casa: «Sul far della sera, dà ordine che gli si allestisca la brandina da lavoro nei locali della casa adiacenti all’ingresso e si fa portare tavolette, stilo e lampada; dispone che tutti i suoi familiari si sistemino nelle stanze interne e personalmente concentra nello scrivere la sua mente, i suoi occhi, la sua mano, perché la sua fantasia disoccupata non gli foggiasse gli spettri, di cui gli avevano parlato, e paure inconsistenti».

Plinio il Giovane nel suo scrittoio (in atteggiamento simile a quello attribuito al filosofo Atenodoro)

Come si vede, il filosofo vuole tenere la mente occupata proprio per mantenerla lucida: il suo atteggiamento è concentrato e razionale. Ed ecco, nel silenzio della notte, «uno scuotere di ferri ed un muovere di catene» (concuti ferrum, vincula moveri).

Atenodoro, con una flemma britannica ante litteram, «non alza gli occhi, non desiste dallo scrivere, fa appello a tutta la sua forza d’animo e cerca con essa di sbarrare la via a quanto giunge alle sue orecchie». Il fantasma, presumibilmente contrariato, fa il diavolo a quattro: «Il frastuono si fa più insistente, si avvicina sempre più, ormai dà l’impressione di risuonare sulla soglia, poi addirittura dentro la soglia». A questo punto il filosofo si volta e «vede e riconosce la figura di cui gli avevano parlato». Lo spettro, fermo in piedi, «faceva segno col dito nell’atteggiamento di chi chiama».

Atenodoro però resta impassibile e continua a scrivere sulle sue tavolette di cera. Figurarsi il fantasma! Palesemente contrariato, «mentre l’altro scriveva, continuava a fargli strepitare le catene accanto alla testa».

Infine il filosofo, vedendo la stizza e il disappunto del defunto, tronca ogni indugio, prende la lampada e lo segue. La misteriosa figura «camminava a passo lento, come se fosse aggravata dalle catene; dopo che ebbe piegato verso il cortile della casa, all’improvviso svanisce abbandonando il suo compagno». Atenodoro, collocate sul posto delle foglie per riconoscerlo con precisione, si reca l’indomani dai magistrati e chiede che si scavi in quell’angolo. Avviene una sorprendente scoperta: «Vengono trovate delle ossa frammischiate ed intrecciate a catene; le carni, decomposte dal tempo e dalla terra, le avevano lasciate nude e corrose dai loro legami; furono raccolte e seppellite a nome del comune». Ricevuta finalmente degna sepoltura, lo spettro dovette essere soddisfatto; infatti «non si fece più vedere in quella casa».

La lettera di Plinio racconta un altro episodio “soprannaturale”: a un suo liberto uno spettro aveva tagliato i capelli nottetempo e altrettanto era successo a un suo giovane schiavo (c’è da sospettare però, considerando la dabbenaggine di Plinio, che qualcuno si divertisse alle sue spalle). Nel finale, l’autore fa appello all’erudizione e all’ingegno di Sura perché esamini i fatti riportati. Non sappiamo se e come l’amico abbia risposto a questa richiesta.

La “ghost story” di Plinio lascia intuire la volontà dell’autore di “convincere” della veridicità di questi aneddoti. In particolare, nell’aneddoto di Atenodoro, la scelta di un filosofo come protagonista sottolinea l’intenzione di immergere nella realtà razionale l’elemento soprannaturale.

Ora, il racconto di Plinio era noto anche a Luciano di Samosata, che però lo riferiva non ad Atenodoro ma al pitagorico Arignoto e lo ambientava non ad Atene, ma a Corinto (cfr. Il vago di bugie, o l’incredulo XXXV); e non è improbabile, come scrive Francesco Lamendola, «che Luciano, spirito impertinente e scanzonato quant’altri mai, abbia “rispolverato” il racconto di Plinio e ne abbia fatto per così dire il canovaccio di un suo dialogo scherzoso. Il testo di Luciano, insomma, essendo assai posteriore a quello del romano, non dimostra affatto che entrambi derivassero da un archetipo comune più o meno stilizzato, più o meno verosimile, ma può suggerire altrettanto bene (e forse più) che il più antico sia stato la fonte del più recente» (http://www.accademianuovaitalia.it).

Lo stesso Lamendola aggiunge altre osservazioni interessanti: «lo spettro apparso ad Atenodoro non si è limitato a mostrarsi, produrre dei suoni oggettivamente percepibili (perché uditi da diversi testimoni e in differenti circostanze) e muoversi attraverso la casa. Esso ha mostrato di avere una missione da adempiere, o meglio, una richiesta da fare ai viventi: ottenuto quanto desiderava, è scomparso. Ora, sappiamo bene che la mancata sepoltura costituiva, nel mondo greco e romano, la massima sciagura per l’anima di un defunto: si confronti, al riguardo, il notissimo episodio di Palinuro che implora da Enea, nell’Averno, affinché. il suo corpo riceva degna sepoltura, pena dover continuare ad errare sulla riva dell’Acheronte, senza pace e senza speranza. D’altra parte, esiste una ricca casistica, nella letteratura specialistica odierna, di apparizioni di defunti che in qualche modo interagiscono con i viventi, o per chiedere o per informare o per proteggere o per predire il futuro».

Comunque sia, la piacevole storiella di Plinio, nella sua semplice ingenuità, conferma la bontà d’animo dell’autore, la sua illuminata “humanitas” anche nei confronti degli spiriti dei defunti; e divertente appare l’atteggiamento razionale di Atenodoro, alieno da ogni timore superstizioso, che si comporta come se il fantasma non ci fosse e prosegue la sua attività mentre lo spettro fa di tutto per convincerlo in ogni modo della propria esistenza, scuotendogli addirittura le catene in testa.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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