Uno dei libri più godibili scritti dal bravo scrittore palermitano Roberto Alajmo, specialmente per chi vive nella capitale siciliana, è il suo “Repertorio dei pazzi della città di Palermo”, ripubblicato da Sellerio nel 2018 (la prima edizione mondadoriana è del 2004).
Il libro è così presentato nella seconda pagina di copertina: «una elencazione ragionata dei soggetti eccentrici che hanno popolato Palermo da due secoli a questa parte, ciascuno inventariato con la sua mania, le sue imprese e il destino che gli è toccato in sorte. Ritratti fulminei, microracconti, biografie minimali governate dalla ferrea logica dell’assurdo. Il risultato è un sorriso fra le lacrime, il malinconico divertimento che induce a riflettere anche sulla propria esistenza».
Non essendo io un palermitano doc, ma solo un abitante adottivo della città, ho consultato il mio caro amico Toti Palazzolo, che invece è palermitano “docchissimo”: queste integrazioni al piacevolissimo libro di Alajmo sono dunque in gran parte dovute ai suoi preziosi riscontri. Ne cito, per motivi di spazio, solo dieci, con una breve appendice conclusiva.
1) IL GIROVAGO DI MONDELLO – Alajmo lo descrive così: «Uno si aggirava per le strade di Mondello d’inverno. Appena incrociava una persona le si metteva di fronte e non la lasciava passare, ma senza mai toccarla. Alle proteste della vittima rispondeva: “E s’io t’impiccico a ‘u muru?” [“Se ti appiccico al muro?”]».
Toti lo ha incontrato moltissime volte negli anni ’60-’70: questo tizio faceva dei piccoli lavoretti di pulizie nelle ville di Mondello, si chiamava Ciccio e si diceva fosse scampato al terremoto di Messina del 1908. Se è così, lui era scampato, ma le sue rotelle non tutte.
2) IL SIGNOR “SALUTONI” – Così viene descritto: «Uno lo chiamavano Salutoni. Marciava avanti e indietro nella piazzetta di Sferracavallo, dal Bar Timone al Bar Le Conchiglie. Tutto il giorno, anche con quaranta gradi, anche quando pioveva. Lo chiamavano Salutoni perché quando incrociava qualcuno, e questo qualcuno lo salutava, lui ricambiava con molto entusiasmo. Gridava: “Ciao! Ciao! Io sempre saluto! Io sempre saluto!”».
Toti dice che lo si incontrava fino a pochi anni fa in centro (zona Massimo-Politeama); Salutoni, quarantenne di aspetto giovanile, salutava anche e soprattutto di sua iniziativa, anzi ci teneva molto a sentirsi rispondere subito con la stessa cordialità. Una volta Toti lo bruciò sul tempo salutandolo platealmente; e Salutoni rimase stordito ma fu felice dell’imprevisto. E comunque uno come Salutoni, nella sovrabbondante abbondanza di persone “vastase” che non salutano o fingono di non vederti, va comunque ammirato…
3) PUVIRIEDDU – Questo personaggio, come scrive Alajmo, «girava d’inverno per il centro, mentre l’estate si trasferiva a Mondello. Indossava una tuta blu sformata e aveva o millantava di avere una mano inerte. Il suo approccio per l’elemosina era mostrare le mani una aperta e una chiusa, dicendo in continuazione: “Puvirieddu puvirieddu puvirieddu…”».
Toti aggiunge un dettaglio significativo: “Puvirieddu” era, nonostante la povertà, piuttosto obeso e si aiutava a camminare con un grosso bastone per via di una gigantesca ernia inguinale, che peggiorava col passare del tempo. A me fa molta pena l’autocommiserazione di questo personaggio, che oltre a “millantare” malanni ne aveva davvero… Poveretto!
4) CALOGERO ROMEO – Costui, a detta di Alajmo, «aveva un angioma enorme, color viola, che gli faceva precipitare la parte sinistra della faccia. Nei pomeriggi vendeva caramelle. Teneva una carrozzella appositamente attrezzata davanti al Teatro Massimo. La mattina, invece, Calogero Romeo si trovava con mezz’ora d’anticipo sull’apertura davanti alla taverna Tinervia, in via Messina. Si ubriacava quasi subito e gli altri avventori si divertivano a dargli certi schiaffoni sulla parte spaventosa della faccia. […] Abitava in via Gulì, in una casa a piano terra che gli faceva anche da deposito per la carrozzella. Lo persero di vista quando l’angioma peggiorò e lo ricoverarono all’ospedale».
Toti ricorda che presso questo Calogero, negli anni ‘60/’70, acquistò moltissime caramelle e chewing-gum, disposte ordinatamente in diversi scomparti in una cassettina posta sopra la carrozzella. In questa storia, la figura peggiore la fanno quegli avventori che infierivano su quella povera persona deforme, con una cattiveria ingiustificata e ingiustificabile.
5) FRANCO POLLAROLO – Noto cabarettista: «Suo padre lo avrebbe voluto diverso, più serio e studioso. Per farlo contento, a un certo punto, il figlio interruppe la sua carriera e prese una laurea in matematica che non usò mai, perché tornò subito a dire scemenze in teatro».
Toti aggiunge che Pollarolo si esibiva in città facendo da spalla a Gustavo Scirè, negli anni ’70 e ’80. Me li ricordo anche io: Pollarolo e Scirè, scritturati dalla R.A.I. regionale per una serie di trasmissioni in coppia, diventarono un trio con l’aggiunta di Silvana Tutone. Curioso, però: uno che si chiamava Pollarolo, studiava matematica e faceva il cabarettista; quando si dice l’indecisione…
6) SERAFINO – Uno dei “pazzi” più noti si chiamava Serafino: «era molto grasso e cominciò facendo il tifo per la nazionale di calcio ai campionati del mondo del Messico. La televisione lo inquadrava col sombrero e un paio di piatti, tutto vestito di azzurro. Divenne famoso e cominciò a farsi pagare dai presidenti dei club di tutta Italia. Faceva il tifoso mercenario, bardato coi colori di ogni squadra, a turno. Fu pagato anche per incoraggiare i tifosi del Palermo. [..] Pretendeva di andare in tribuna, dove c’era poco da incoraggiare e anzi gli spettatori lo prendevano in giro. […] Rimase a trascorrere gli anni della pensione a Palermo e morì all’Ospedale Civico perché era diventato davvero troppo grasso».
Toti lo ricorda bene, in quanto fedele tifoso rosanero, per i suoi coloriti show alla Favorita. Io ho trovato su Serafino altre interessanti notizie: in realtà si chiamava Giuseppe Serafini ed era nato a Milano nel 1946; di origine ligure, aveva una potente voce tenorile e arrivò a pesare 200 chili (!). Fra le squadre che lo “assoldarono” per dirigere il tifo vi erano l’Inter di Helenio Herrera, il Milan di Gianni Rivera e la Juve di Giampiero Boniperti; Renzo Barbera decise di reclutarlo per sollevare l’umore dei tifosi palermitani. Compariva immancabilmente alle partite della Nazionale, armato di tamburo, maglia azzurra, corni, cappellone e piatti; e divertiva il pubblico sugli spalti e anche quello da casa, grazie alle inquadrature che la RAI gli dedicava. Fu presente anche nella finale tennistica di Coppa Davis del 1979 tra USA e Italia a San Francisco: ed entrò persino in campo, per un breve siparietto con McEnroe. Morì a soli 34 anni (un po’ presto per “andare in pensione” come scrive Alajmo…), nella primavera del 1980, al Civico di Palermo, per mancanza di ossigenazione ai polmoni a causa della sindrome di Pickwick. Una fine prematura e dolorosa…
7) VICE’ ‘U PAZZO
Su di lui Alajmo è lapidario: “Uno era Vicè ‘u Pazzo, capotifoso che morì e fu sepolto a spese del Presidente Barbera”.
Toti aggiunge qualche informazione: si vociferava che Vicè fosse impiegato alla regione come usciere; ma non è sicuro; di sicuro c’è che non aveva la mole imponente di Serafino: era infatti piuttosto magro. Inoltre era autoctono e “monogamo”: infatti tifò solo per il Palermo.
8) LE DUE SORELLE – Alajmo le descrive così: «Due erano sorelle. Con la madre, tre. Per quindici anni combatterono contro un palazzinaro che aveva costruito abusivamente sul terreno di una vecchia casa che loro possedevano a piazza Leoni. Il palazzinaro, per lo più, aveva la pretesa di cacciarle via, e allora comprò gli appartamenti sopra il loro, li abbatté e le lasciò senza tetto. Ma quelle resistettero, e chi passa da lì ancora oggi vede un palazzo blu e arancione tutto nuovo con davanti un mozzicone di casa vecchia».
Toti ricorda che la vicenda ebbe molta eco nella stampa; e sostiene che la vicenda, ancora oggi, non è stata definita legalmente. Ma questi sono i tempi della (in)giustizia italiana…
9) SANDOKAN – Alajmo lo descrive così: «Uno era soprannominato Sandokan perché andava ai ristoranti all’aperto di piazza Marina con un finto microfono e un turbante. Di solito cantava la sigla dello sceneggiato con Kabir Bedi, però cambiando quasi del tutto le parole, mettendone altre di sua invenzione. […] Alla fine, però, dimenticava sempre di passare ai tavoli per chiedere un’offerta, e se ne andava a cantare davanti a qualche altro ristorante».
Toti ricorda di averlo incontrato anche dalle parti del Teatro Massimo: a inizio carriera poteva avere 30-35 anni; io posso aggiungere il “terminus post quem”, che è il 1976 (anno della messa in onda del fortunato sceneggiato televisivo). Un dettaglio che mi piace rilevare è che “Sandokan” non “esercitava” per i soldi (infatti dimenticava spesso di chiederli), ma per puro gusto esibizionistico o artistico, creando un buffo “grammelot” (cioè un’emissione di suoni incomprensibili ma simili a parole o discorsi reali): e per ottenere un buon “grammelot” occorre essere all’altezza di grandi artisti come Dario Fo o Gigi Proietti… Bravo Sandokan! [post scriptum: per me il sosia perfetto di Sandokan era invece il titolare di un noto ristorante di Porticello, soprannominato “Nello il Greco”…; aveva look e aspetto identici a Kabir Bedi e ci si aspettava sempre di veder spuntare alle sue spalle il fido Yanez, con l’eterna sigaretta in bocca…]
10) IL CONTE CAPPELLO
Alajmo lo descrive così: “Uno era Aldo Cappello, detto Conte Cappello. Abitava in via Pitrè e diceva di lavorare come maggiordomo, anche se nessuno sapeva in quale famiglia. Il soprannome era un omaggio alla sua eleganza, e del resto era una persona grandiosa: se chiedeva un prestito a qualche conoscente, non era mai al di sotto delle duecentomila lire. Dicevano del Conte Cappello che fosse omosessuale, ma l’unica prova consisteva nell’esibizione in passeggiata di certi bigodini di ferro ai lati della testa, coi capelli lunghi, biondi e lisci sul dietro”.
Toti se lo ricorda bene: negli anni ’70 era facile vederlo in centro (zona Massimo-Politeama) e a Mondello; in quell’epoca molto “scorretta” era oggetto di derisione, soprattutto da parte di giovinastri.
APPENDICE – Visto il contesto, mi pare opportuno chiudere con un episodio surreale e divertentissimo, degno della penna di Alajmo, al quale mi capitò di assistere in un viaggio di ritorno da Bagheria a Palermo a bordo di un autobus dell’AST. Lo potremmo intitolare “La pazza di Bagheria”.
Salito a bordo del bus (che era quasi vuoto), mi sedetti un po’ più indietro rispetto a una vecchietta, che stava a sua volta seduta in uno di quei posti che ne fronteggiano un altro. Il posto di fronte a lei era assolutamente vuoto; nondimeno, la vecchietta parlava, parlava, parlava torrenzialmente, con “qualcuno” (a scanso di equivoci, premetto che non esistevano ancora telefonini e auricolari). La donna, in dialetto “baarioto” stretto, raccontava al suo immaginario interlocutore vicende sue personali e di tutta la sua famiglia, a voce chiara e forte e con minuziosi particolari. Noi pochi ast…anti (cioè passeggeri dell’AST) ci guardavano sorridendo; ma lei continuava a ciarlare, ad alternare toni ed espressioni con una mimica facciale e gestuale degna del grande Angelo Musco, parlando (ma a chi?) di tutto e di più. Questo strano monologo/dialogo durò per tutto il viaggio (quasi 45’); la donna continuò sempre imperterrita, senza scomporsi nemmeno quando salirono a bordo altre persone. Finalmente, quando si arrivò a Piazza Politeama, la vecchietta si rese conto (non so come) di dover scendere; allora salutò affettuosamente la persona (?) cui si era rivolta, non senza raccomandarle (portando solennemente un dito alla bocca in segno di silenzio): “E di tutto chiddu ca ti rissi ‘un ci cuntari nenti a nuddu!” (“E di tutto quello che ti ho detto non raccontare niente a nessuno!”).
Benedetta follia, direbbe Carlo Verdone…