Un messaggio di speranza in una lirica di Sikelianòs

Il poeta neogreco Àngelos Sikelianòs, nato nell’isola di Leucade nel 1884 e morto ad Atene nel 1951, fu una sorta di “D’Annunzio greco”. Attratto dal panismo e dall’orfismo, sostenitore della continuità tra mondo antico e moderno, da giovane creò una piccola comunità di artisti, uniti dal rifiuto della civiltà moderna: si tessevano da soli le tuniche, miravano a riconoscere nelle semplici tradizioni del popolo greco la sopravvivenza dei miti antichi; ne fecero parte la famosa ballerina Isadora Duncan ed Eva Palmer, che diventò la moglie del poeta.

Dalla canzone Πνευματικό εμβατήριο (versi di Sikelianòs, musica di Mikis Theodorakis, 1945).

Poeta visionario e dal grande impeto lirico, durante la seconda guerra mondiale Sikelianòs adombrò nei miti classici, cristiani e bizantini le vicende della guerra, dell’occupazione nazista e della resistenza greca. Negli “Epinici”, composti fra il 1940 e il 1946, si trova la poesia che propongo oggi, “Apocrifo”, un testo che (a parere di Bruno Lavagnini) “tocca a tratti il sublime”.

La lirica risale all’ottobre 1941, durante l’occupazione nazista della Grecia; prende spunto da un carme del poeta persiano Nizami (XII sec. d.C.), già riadattato da Goethe (e Sikelianòs attinse diversi elementi proprio dalla rielaborazione di Goethe).

Il titolo greco, “Àgraphon” (Ἄγραφον), significa letteralmente “non scritto”, a indicare un evento dell’esistenza di Gesù non attestato dai Vangeli ufficiali e quindi “apocrifo”.

Eccone il contenuto, sicuramente sconcertante.

Gesù e i discepoli, camminando “fuori delle mura di Sion”, arrivano al luogo dove la città butta i rifiuti, una sorta di “discarica” di Gerusalemme. Qui, tra “materassi bruciacchiati di malati, stracci, / cocci, detriti e immondizie”, scorgono la carogna nauseabonda di un cane, che manda un terribile fetore. Tutti indietreggiano inorriditi, ma solo Gesù avanza solitario ed osserva da vicino il cadavere. Un discepolo, stupito e nauseato, chiede al Maestro come possa restare lì, come resista a quell’ “orrendo odore”.

Allora Gesù, imperturbabile, senza voltarsi, risponde che quel terribile odore lo si respira “anche in città, donde veniamo”; Lui però ammira “quel che vien fuori / dalla decomposizione”: vede brillare al sole i denti della carogna e coglie, “di là dalla putredine”, una “promessa grande” (ὑπόσκεση μεγάλη, v. 31), un “riflesso dell’Eterno” (ἀντιφεγγιὰ τοῦ Αἰώνιου, v. 32), ma anche il “duro lampo della Giustizia” e, paradossalmente, la “speranza”. I discepoli, comprendano o no le parole del Maestro, si allontanano con lui “nel cammino silenzioso”.

A questo punto si alza, con forte intonazione patetica, la voce del poeta, che parla in prima persona e sposta la scena nella sua epoca, nell’Atene occupata dai nazisti, in cui la gente moriva di fame e di stenti.

In un’unica lunga strofe (vv. 37-60), Sikelianòs, sentendosi “sempre più / fuori delle mura di Sion” e vedendo che su tutta la terra “tutto è rovina e tutto è corruzione / e ovunque sono cadaveri insepolti”, chiede al Signore la “santa serenità”, per sostare senza turbamenti “nel mezzo delle carogne” e per riuscire a far risplendere, “oltre la putredine del mondo”, la promessa di eternità, giustizia e speranza.

Ho ripensato a questa poesia, studiata tanti anni or sono all’università, nel lungo periodo della pandemia, in cui anche noi navigavamo in mezzo a una vera “discarica”, in un tunnel che sembrava senza sbocchi, fra le lontane promesse di rivedere la luce e l’angoscia quotidiana che sembrava sempre smentire o dilazionare le speranze. E anche oggi, in un mondo devastato dalle guerre, dalle intolleranze, dalla violenza e dall’ingiustizia, i versi di Sikelianòs continunao a essere terribilmente attuali.

E forse nell’angoscia, nell’orrore, nell’ “orribile odore” del presente, in questa realtà dove siamo portati a credere che tutto sia “rovina e corruzione”, in questo nostro tempo ancora in guerra, dovremmo riuscire ad invocare la sublime tranquillità del Maestro, la sua capacità di vedere, “di là dalla putredine”, la “promessa grande”, il “riflesso dell’Eterno”, il “duro lampo della Giustizia” ma anche la “speranza”. E, come fa il poeta, occorrerebbe implorare un attimo di “santa serenità” per riuscire a cogliere, nella devastante tragicità dell’oggi, “un segno bianco come grandine, come giglio”.

Sikelianòs ci affida un messaggio tanto chiaro quanto arduo: occorre (ora come sempre) far nascere la speranza dalla disperazione, credere nella rinascita che viene dalla rovina, cogliere il riflesso dell’Eterno nella piccola contingenza del nostro tempo, di un presente che oggi appare terribile perché è qui, hic et nunc, sotto i nostri occhi, ma domani sarà pagina effimera della secolare storia dell’Uomo, una paginetta nei libri di storia o (se non esisteranno più i libri) un piccolo file fra migliaia di altri del secolo XXI.

In questa prospettiva, dunque, occorre guardare in faccia la terribile realtà, non girare lo sguardo, resistere al fetore dell’oggi, per coltivare però, surreale, tenace, indomabile, indelebile, granitica, la speranza.

Presento ora integralmente la lirica nella bella traduzione di Mario Vitti.

APOCRIFO

«Camminavano fuori delle mura di Sion / Gesù e i discepoli / quando, poco prima che il sole tramontasse, / giunsero d’improvviso al luogo / dove la città da anni gettava i rifiuti, / materassi bruciacchiati di malati, stracci, / cocci, detriti e immondizie. / E là, sul più alto mucchio, gonfia / con le gambe rivolte al cielo, / la carogna d’un cane, che, / appena i corvi che la coprivano / sentirono passi e la abbandonarono, / un tale odore mandò che tutti, / come in un passo, i discepoli / tenendo il respiro nel cavo della mano / indietreggiarono.                    

Ma Gesù avanzando solitario / verso il mucchio taciturno si fermò / a guardare la carogna; / tanto che un discepolo non si trattenne / e disse da lontano: “Rabbi, come fai a fermarti così, / non senti forse l’orrendo odore?”.

E lui, senza voltar il capo / dal punto che fissava, rispose: / “Questo orribile odore colui / che ha puro il fiato lo respira / anche in città, donde veniamo. / Ma ora quel che vien fuori dalla decomposizione io ammiro / con tutta l’anima. / Guardate come brillano al sole / i denti di questo cane; / come grandine, come un giglio, / di là dalla putredine, promessa grande, / riflesso dell’Eterno, ma anche / duro lampo della Giustizia e speranza!”

Così egli disse; e tali parole / avessero inteso o non i discepoli, / insieme, com’egli mosse, / lo seguirono ancora nel cammino silenzioso.

Ed eccomi ora ultimo, certo, / volgere la mente a quelle Tue parole, / o Signore, e tutto un pensiero / fermarmi davanti a Te: Deh, concedi anche a me, /   Signore, mentre cammino sempre più / fuori delle mura di Sionne / e da un confine all’altro della terra / tutto è rovina e tutto è corruzione / e ovunque sono cadaveri insepolti / che soffocano la sacra fonte del respiro, /fuori delle mura e anche dentro; / Signore, dammi nel mezzo dell’orrendo odore / nel quale cammino, per un momento, / la Tua santa serenità / per sostare inturbato nel mezzo delle carogne / e cogliere col mio sguardo / un segno bianco come grandine, come giglio, / qualcosa che splenda a un tratto / anche in fondo a me, fuori della putredine, / oltre la putredine del mondo, / come i denti di questo cane, / che Tu, o Signore, scorgendo quella sera / mirasti come grande promessa, / riflesso dell’Eterno, ma anche / duro lampo di Giustizia e speranza! (σκληρὴ τοῦ Δίκαιου ἀστραπὴ κ’ ἐλπίδα!)».      

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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