Agli Uffizi di Firenze, dove sono tornato alcune settimane fa, si trovano (fra le infinite altre opere d’arte dal valore incommensurabile) due ritratti eseguiti nel 1541 da Agnolo di Cosimo detto “il Bronzino”: essi raffigurano due coniugi benestanti, Bartolomeo e Lucrezia Panciàtichi. Fra i due, il dipinto più famoso e inquietante è quello che ritrae la nobildonna.
Lucrezia siede su una sedia in legno, inclinata di tre quarti verso sinistra. Il suo sguardo intenso ha qualcosa di freddo e sfuggente, in contrasto con l’abito dal colore rosso acceso, sontuoso ed elegante: le maniche, aderenti ed estraibili, fissate al vestito con lacci, sono più scure e arricciate; sulle spalle il vestito presenta evidenti sbuffi; la scollatura quadrata è decorata con un ricamo dorato; i capelli sono raccolti in un’acconciatura sobria, con una treccia che incornicia la testa.
Lucrezia poggia la mano destra su un piccolo libro di preghiere aperto, in cui si intravedono i versetti di un salmo biblico. La mano sinistra invece, indossa una piccola fede nuziale e poggia sul bracciolo della sedia.
Al collo (elegante e lungo, come in una specie di Modigliani “ante litteram”) la donna porta una collana in oro; sulle quattro barrette d’oro e smalto che intervallano le maglie della catena si legge la scritta “amour dure sans fin” (“l’amore dura senza fine”); ogni barretta, a forma di parallelepipedo, reca su ognuno degli altri tre lati le tre parole mancanti. In pratica, girando ciascuna barretta l’intera frase può essere ricomposta secondo diverse sequenze circolari («dure sans fin amour», «sans fin amour dure»), senza però che la frase modifichi il suo significato. Resta da capire se la frase si riferisca all’imperituro amore coniugale (come il marito avrà sicuramente preferito) o, più devotamente, all’amore eterno di Dio per gli uomini.
Anche attorno alla vita Lucrezia indossa cintura con pietre preziose montate in oro.
La nobildonna è ritratta all’interno di uno spazio chiuso, davanti ad una nicchia appena percepibile sullo sfondo; la parete retrostante è incorniciata da due colonnine debolmente illuminate, che sostengono un arco. Molto probabile è una simbologia cristiana, dato che Lucrezia siede all’interno di una nicchia uguale a quella che contiene il Cristo crocifisso dello stesso Bronzino.
Questa dama seria e malinconica ritratta dal Bronzino non smise di emanare nei secoli la sua sottile seduzione; fu rievocata ad esempio dalla scrittrice inglese Vernon Lee (al secolo Violet Paget) nel suo racconto “Amour dure” uscito a Londra nel 1892 in “Hauntings. Fantastic Stories”. La descrizione fu inviata all’amico Henry James, che a sua volta scrisse una lunga descrizione del quadro del Bronzino nel romanzo “Le ali della colomba” (1902): «L’immagine di una giovane donna magnificamente disegnata fino alle mani e magnificamente vestita, dal viso quasi livido, eppure bello di tristezza, e coronato da una massa di capelli tirati indietro e ammassati alti sulla testa che prima di sbiadire col tempo dovevano aver avuto una somiglianza di famiglia con i suoi. La dama in questione, comunque, con la sua leggera squadratura michelangiolesca, i suoi occhi d’altri tempi, le sue labbra tumide, il suo lungo collo, i suoi famosi gioielli, i rossi sbiaditi dei suoi broccati, era un grandissimo personaggio, ma non l’accompagnava la gioia. E lei era morta, morta, morta» (“Her eyes of other days, her full lips, her long neck, her recorded jewels, her brocaded and wasted reds, was a very great personage – only unaccompanied by a joy. And she was dead, dead, dead”).
Ma chi era questa donna dallo sguardo di ghiaccio, priva di gioia e di palpiti emotivi?
Lucrezia era nata nel 1507 a Firenze da Gismondo Pucci, socio di una bottega di lanaioli. Fra il 1528 e il 1534 (la data è incerta) aveva sposato Bartolomeo Panciàtichi, uomo ricco e coltissimo; costui era nato in Francia, anch’egli nel 1507, da una relazione extraconiugale di un ricco mercante pistoiese che aveva importanti legami commerciali con Lione ed era proprietario di una florida azienda commerciale.
Gli sposi vissero inizialmente a Lione, ma dal 1539 si stabilirono a Firenze, dove Bartolomeo il 20 gennaio 1541 divenne membro dell’Accademia letteraria degli Umidi (divenuta in seguito “Accademia fiorentina”); in effetti Panciàtichi si occupava più degli studi umanistici che dell’azienda paterna, la cui gestione affidò ad alcuni parenti.
I due ritratti furono commissionati al Bronzino proprio in occasione dell’importante nomina ricevuta da Bartolomeo. Agnolo Bronzino, nato nel 1503 a Monticelli di Firenze, era un ritrattista affermato alla corte di Cosimo I de’ Medici; era apprezzato per la sua impeccabile tecnica e per la sua abilità nei ritratti dei nobili fiorentini.
Il Vasari nelle sue “Vite” ammira molto i due ritratti dei coniugi Panciàtichi (che poté vedere intorno al 1568) lodandone la verosimiglianza e definendoli “tanto naturali, che paiono vivi veramente, e che non manchi loro se non lo spirito”.
In realtà, però, una caratteristica del pittore era quel certo velo distaccato e algido che si coglie nei personaggi da lui raffigurati, che non esternano particolari emozioni; per l’appunto diversi critici hanno sottolineato l’ambiguità del ritratto di Lucrezia, una donna bellissima ma che sembra avere in sé il fascino e i colori della luce al tramonto. Lo sguardo serio, freddo, etereo della donna rispecchiava forse un corrispondente gelo interiore, un’infelicità nascosta, un’amarezza per una vita priva di autenticità e di passione.
In proposito, esiste una notizia (di fonte incerta, ma riferita da Massimo Griffo nel “Giornale degli Uffizi” n. 48, agosto 2010, pp. 1-2), che chiarirebbe molte cose: Lucrezia Pucci, prima di sposarsi, avrebbe vissuto un breve impossibile amore con il giovane Cosimo de’ Medici, figlio del condottiero Giovanni dalle Bande Nere e futuro granduca; questi però era destinato a sposare la figlia spagnola del Viceré di Napoli, Eleonora di Toledo (le nozze avvennero nel 1539), per cui avrebbe sacrificato la sua passione per Lucrezia e anzi avrebbe voluto “sistemarla” facendole sposare Bartolomeo Panciàtichi.
Se così fosse, nel ritratto del Bronzino (commissionato forse da Cosimo e non dal marito di Lucrezia) il volto triste e pensoso della donna potrebbe implicitamente confessare quell’antico amore: “amour dure sans fin”.
Un ulteriore gossip è favorito da un altro ritratto del Bronzino, che raffigura la piccola Bianca detta Bia, “figliola naturale del Duca” Cosimo e nata prima del suo matrimonio. Simone Fortuna, ambasciatore in Toscana del duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere, nel 1560 scrisse in una lettera che il duca Cosimo “ne’ primi anni del suo ducato, ebbe da una gentildonna di Fiorenza una puttina, che fu battezzata in nome di Sua Eccellenza Illustrissima, et si chiamò Bia. Et la Signora duchessa Leonora, trovatala in casa, l’allevava amorevolmente come nata che era dal marito prima che lei fusse sua sposa”. La bambina fu quindi allevata insieme alla discendenza legittima di Cosimo ed Eleonora di Toledo; purtroppo però, all’età di circa cinque anni, nel 1542, si ammalò improvvisamente e morì dopo poche settimane; il duca addoloratissimo ne volle conservare la maschera mortuaria in gesso, da cui forse il Bronzino ricavò il suo ritratto.
E se questa bimba fosse nata da quella relazione nascosta di Cosimo con Lucrezia (della quale il ritratto sembra ricordare le sembianze)? Agli altri dolori sofferti da Lucrezia si aggiungerebbe quello di essersi vista strappare la figlioletta nata da quell’amore impossibile: la sua espressione di gelida indifferenza sembra derivare da una sofferenza profonda e incancellabile.
Meno inquietante, ma altrettanto intenso e realistico, è il ritratto del marito di Lucrezia, Bartolomeo Panciàtichi.
L’uomo è raffigurato in piedi al centro del dipinto, con corpo e volto frontali e il braccio sinistro appoggiato su una balaustra intagliata con motivi classici. La fisionomia del personaggio è magra e ossuta: sul volto allungato spicca un naso aquilino, gli occhi sono incavati, le gote sono asciutte e gli zigomi prominenti, la lunga barba è divisa in due. La mano destra (come nel ritratto della moglie) stringe un libretto, che allude alle sue doti intellettuali; la mano sinistra invece, adunca e quasi rapace, sembra alludere alla sua professione di predace mercante.
Bartolomeo è elegantemente vestito, con un copricapo che sottolinea la sua ricca condizione sociale (e che forse cela un’incipiente calvizie). L’abito è in tessuto scuro e pesante, con maniche più leggere di colore rosso scuro. La scena è ambientata all’esterno, con lo sfondo di alcune architetture classiche, profilate in pietra serena.
Sappiamo ancora qualcosa riguardo ai due coniugi.
Dopo il matrimonio, nel 1545 Bartolomeo Panciàtichi fu nominato console da Cosimo I: lo stesso anno gli nacque un figlio, Carlo. Nel 1547 fu rimandato in Francia come ambasciatore presso Enrico II e Caterina de’ Medici. Qui fu attratto dalle teorie religiose protestanti, tanto che al suo ritorno a Firenze portò con sé alcuni libri proibiti dalla Chiesa romana, come l’“Istituzione della religione cristiana” di Giovanni Calvino.
Nel 1551 un anabattista pentito, tale Pietro Manelfi, presentò all’inquisitore di Bologna una lista di “eretici” luterani, fra i quali c’erano anche i coniugi Panciàtichi. Essi però ebbero la benevola protezione di Cosimo de’ Medici (il che alimenta la diceria sull’antica “liaison” fra costui e Lucrezia): il duca intervenne presso i «commissari sopra l’inquisizione» per difendere i suoi protetti («questa inquisitione li potrebbe molto nuocere et pregiudicare nelli suoi negotii di Francia, ne’ quali quando la si intendesse tale imputatione sua, potrebbe causarsi la rovina sua»). Firenze ebbe dunque il suo autodafé, con una processione degli eretici per la città con la torcia in mano e l’abito giallo con la croce rossa, ma Cosimo evitò l’umiliazione della processione ai «nobili di ricchezze» (e quindi soprattutto a Panciàtichi). Il 12 febbraio 1552 tre donne, tra cui Lucrezia, «le quali erano nella medesima pazzia che i mariti», furono esaminate e condotte nella chiesa di S. Simone e, «presente il popolo, si ribenedissero». Un’amnistia e una “riconsacrazione”, insomma, che evitò guai peggiori ai due coniugi invischiati con il luteranesimo.
Cosimo continuò a favorire espressamente Bartolomeo: «La protezione assicurata da Cosimo al ricco mercante che era stata senza riserve, e decisiva, sul versante delle traversie inquisitoriali, fu non meno determinante sul versante degli interessi economici, e su quel terreno, anzi, fu tale da pregiudicare le legittime ragioni dei creditori avvantaggiando in tutto il Panciàtichi. Fin dalle prime battute si stabiliva che c’era sì da dare soddisfazione ai creditori, ma lo si doveva fare “con mancho danno che si può di esso Bartolomeo”, e i suoi beni non potevano essere alienati senza l’assenso dello stesso Cosimo. E così fu» (R. Mazzei, in “Rivista storica italiana”, anno CXXX, 2018, fasc. I, p. 380; l’articolo contiene numerose altre notizie sull’attività commerciale, culturale e religiosa di Panciàtichi).
In seguito Bartolomeo riprese la sua attività politica: nel 1567 fu nominato senatore, fra i mormorii malevoli degli ambienti clericali; l’anno dopo fu inviato come commissario a Pisa e nel 1578 lo fu a Pistoia. Aveva ormai accantonato per prudenza ogni esternazione delle sue simpatie per il calvinismo e gli ugonotti, ma gli rimase il gusto per la lettura della Sacra Scrittura (ad es. nel 1576 dedicò alla duchessa Eleonora alcune canzoni di imitazione petrarchesca nelle quali ricorreva il motivo della miseria umana e della fiducia del perdono divino).
Bartolomeo Panciàtichi morì a Pistoia nel 1582, dodici anni dopo rispetto a Lucrezia, che era deceduta nel 1570. Il figlio dei due, Carlo, non fu un modello di buona condotta: condannato a morte per aver ucciso un cameriere, ottenne la grazia da Cosimo de’ Medici, che gli fece anche sposare la sua ex amante Eleonora degli Albizzi (un tardivo risarcimento, forse, per l’abbandono di sua madre tanti anni prima…).
Carlo Panciàtichi conservò i ritratti dei suoi genitori nel suo palazzo (ove nel 1584 furono ammirati da Raffaello Borghini); lì restarono sino al 1634, anno della morte di Carlo (o fino al 1665 quando il suo ramo familiare si estinse con la morte di suo figlio Camillo), per essere poi trasferiti nel palazzo del ramo fiorentino della famiglia nell’attuale via Cavour e successivamente nelle Gallerie fiorentine, dove si trovano almeno dal 1704.
P.S.: Una curiosità: esiste un ritratto di Santi di Tito che raffigura un senatore Panciàtichi e che risale a molti anni dopo (1574); esistono buone probabilità che si tratti dello stesso Bartolomeo raffigurato decenni prima dal Bronzino: identici sono gli zigomi alti, la forma del naso, la barba bifida (anche se ormai bianca), le sopracciglia arcuate; una novità è la calvizie ormai diffusa nei pochi capelli bianchi (ma è in linea con la suddetta ipotesi di un astuto “mascheramento” attuato nel vecchio ritratto grazie all’espediente del cappello).