Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.
Eccone altri cinque.
1) “Fontaniere”: è l’idraulico, da queste parti chiamato così. Non me ne meraviglio, perché in ogni regione italiana i mestieri assumono spesso nomi differenti rispetto alla lingua nazionale (a Genova l’idraulico era chiamato “ottoniere”); ad esempio, dunque, qui a Palermo il macellaio si chiama “carnezziere”, l’imbianchino è nobilitato in “pittore”, i muratori sono i “mastri”, ecc.
Tornando al “fontaniere”, deriva il suo nome dal termine “funtanèri” che, per Mortillaro, indica il «custode delle acque delle fontane, e che soprantende [sic!] alle fontane, alla loro fabbrica, e mantenimento». Dalla custodia delle fontane alla riparazione di tubi e rubinetti di casa il passo non è così lungo, sicché si spiega come in caso di guasto si debba chiamare “il fontaniere”.
A Bagheria, come mi ricorda Mimmo Sciortino, c’era un fruttivendolo, tale signor Provenzano, che era soprannominato “u dacuttaru” (lett. “venditore di decotti”) e aveva il negozio in corso Umberto di fronte alla via Goethe: il soprannome derivava dal fatto che la sua famiglia aveva un negozio di erboristeria e decotti vari in via Di Pasquale (ai “Pilastri”); altri due “decottari” erano in corso Butera e alla “Puntaguglia”, vicino alla stazione. Mio zio Masino, quando andava a fare la spesa in paese, diceva sempre “vaju ‘nnu dacuttaru” per dire che andava a comprare frutta e verdura.
2) “(I)nchiummusu”: si dice di qualcosa che abbiamo mangiato e ci è rimasto sullo stomaco, senza che riuscissimo a digerirlo. Il corrispondente verbo “inchiummari” significa propriamente “fermar una cosa con il piombo, impiombare” (Traina) e quindi «’nchiummari ‘nta lu stomacu si dice de’ cibi che non si posson digerire».
Ecco dunque che le deliziose melanzane “ammuttunate” mangiate ieri sera sono risultate “(i)nchiummusedde”, che il pranzo della domenica è stato parecchio “(i)nchiummusu” e che quando si fanno stravizi alimentari l’“(i)nchiummata” è garantita.
Il termine affine “chiummu” (propr. “piombo”) era usato da alcuni studenti per alludere alle “stragi” perpetrate dagli insegnanti ai loro danni («oggi il prof ci fa i chiummi»): e in effetti anche questo tipo di “chiummu” poteva risultare molto “indigesto”.
3) “Sconcertato”: in italiano significa “turbato, disorientato, sorpreso, sbigottito” (Gabrielli); in siciliano invece allude espressamente a chi si sente male e ha forte nausea, ad es. dopo un viaggio in pullman attraverso le sconquassate “trazzere” siciliane o dopo una turbolenza in aereo o dopo una traversata in nave con il mare forza 8.
Curiosamente, il verbo “scuncirtari” o “sconcertari” (“produrre sconcerto, confondere, turbare”) ha nel vocabolario di Traina anche un significato amoroso: vorrebbe dire infatti “far innamorare qualcuno/a”, “far traviare, persuadere a far checchessia”. Io però questo significato non l’ho mai sentito usare, mentre è normalissimo sentir dire “Mi sento sconcertato/a” a chi prova malessere e disgusto e ha la faccia palesemente “schifiata”.
4) “Sfurniciàrisi” (o “sfirniciàrisi”): per Traina significa “lambiccarsi il cervello, investigare con la mente, scervellarsi”; per Mortillaro “sfirniciamentu” è “sollecitudine molesta, cura, pensiero, talvolta per cose importanti, e talvolta per cose da nulla, e per lo più infruttuoso”.
In pratica, quando si tenta di risolvere un difficile problema di Matematica, o quando si prova a divinare il significato di una misteriosa versione di Greco, o quando si tenta di far quadrare i conti a fine mese, si può ben dire: “Mi sto sfurniciando”.
Non sono riuscito a trovare un’etimologia del vocabolo, che forse ipoteticamente va collegato a “furnu” (“forno”), alludendo forse al cervello che fuma per lo sforzo intellettivo o ai vapori provocati dall’eccessiva concentrazione mentale; ma possiamo sempre “sfurniciarci” a trovare la vera origine del termine.
5) “Stulusu”: molto comune nella conversazione quotidiana semidialettale (a Bagheria lo sentivo usare costantemente), significa “antipatico, provocatore”. Ad esempio “stuluseddu” è un bambino irrequieto e monello, “stulusu” è chi ci dà fastidio più o meno volontariamente: queste persone manifestano “stuluserìa”, cioè appunto questa predisposizione a infastidire il prossimo.
Nel vocabolario di Mortillaro, come mi segnala mio cugino Pierantonio Maggiore, si trova nella forma “strudùsu” con la seguente definizione: “che apporta rodimento, o che è solito per carattere essere disaggredevole [sic!], noioso”; parallelamente esiste “strudimentu” (“atti o parole che muovono a sdegno, travaglio, cruccio interno cagionato da persona molesta, rodimento”).
La chiudo qua, per non essere troppo “stulusu” e per non farvi “sfurniciare” oltre; non vorrei risultare “(i)nchiummusu” e farvi “sconcertare” troppo. Alla peggio, chiamate un “fontaniere”: ma preparate il portafogli, perché in genere sono una categoria “caravigghiara” (cioè “costosa”)…
Articolo molto informativo, grazie
Articolo incredibile. Grazie Mille!