L’ “Edipo a Colono”, composto da Sofocle poco prima della morte nel 406 a.C. e rappresentato postumo nel 401 a.C. dal nipote omonimo del poeta, costituisce un singolare e raro esempio di “sequel” rispetto all’ “Edipo re” composto circa trent’anni prima.
Fornisco anzitutto, per chiarezza, qualche cenno riepilogativo sulla trama dell’opera.
Esule da Tebe, mendicante cieco e stanco, Edipo giunge insieme alla figlia Antigone a Colono, sobborgo di Atene, nel bosco sacro alle dee Eumenidi. I vecchi abitanti del luogo (che costituiscono il coro), inorriditi alla vista dell’infelice, lo vorrebbero cacciare dal recinto delle dee. Ma nel I episodio, con un’orgogliosa consapevolezza che mancava nel precedente dramma, Edipo proclama la sua innocenza; infatti le sue terribili colpe (ha ucciso il padre Laio, ha sposato la madre Giocasta, ha generato figli da lei) non sono state volontarie: “le mie azioni io non le ho decise, ma le ho patite” (v. 267; uso qui la traduzione di Franco Ferrari).
Giunge Ismene, sorella di Antigone, che comunica lo scontro fra i fratelli Eteocle e Polinice: il primo ha espulso da Tebe il secondo e costui muove contro la sua città con l’esercito argivo. Gli oracoli però affermano che il corpo di Edipo sarà talismano di vittoria per chi l’avrà con sé: dunque il reietto, l’espulso, il maledetto, si scopre prezioso, necessario (come era avvenuto nel dramma omonimo a Filottete, anche lui rifiutato da tutti ma poi rivelatosi indispensabile – con il suo arco magico – per la conquista di Troia).
Prima Creonte (per conto di Eteocle) e poi Polinice in persona tentano invano di ottenere l’aiuto di Edipo, che li caccia via sdegnato predicendo ai suoi figli la reciproca uccisione.
A questo punto, Edipo viene accompagnato da Teseo in un boschetto sacro alle Eumenidi e, dopo aver predetto al re di Atene lunga prosperità per la sua città, scompare alla vista di tutti. Alla fine del dramma, Antigone e Ismene intonano il lamento funebre per il padre.
Ma che cosa è successo, veramente, a Edipo? Che senso ha la sua “scomparsa”?
Anzitutto, Edipo “trapassa” in un territorio estremo, quella “eschatià” (ἐσχατιά) che è stata da sempre la sua sede specifica (fin dal Citerone ove era stato abbandonato dopo la nascita). Edipo è l’apolide per eccellenza, sua patria non è stata né Tebe né Corinto (ove era stato creduto figlio del re Polibo); la sua patria è questa terra di nessuno, con palese sottolineatura della sua “diversità” e unicità.
Poi, Edipo sembra progettare punto per punto la sua morte: si spoglia dei suoi “squallidi cenci” (v. 1597) con un’esplicita volontà di purificazione, che prosegue allorché le figlie lo lavano e lo adornano con una nuova veste.
A questo punto si sente un tuono di “Zeus sotterraneo” (v. 1606). Le figlie sbigottite abbracciano il padre gemendo; egli rivolge loro l’estremo saluto, manifestando loro tutto il suo amore: “Da nessuno avete ricevuto un affetto più intenso che da quest’uomo” (vv. 1617-1618). Lo stesso Edipo che era stato spietatamente collerico e intransigente nei confronti dei figli maschi si rivela dolce e affettuoso verso le figlie femmine, piangendo a lungo con loro.
Qui si ha la svolta “soprannaturale” della vicenda.
Come racconta un messaggero, «[Edipo e le figlie] piangevano e singhiozzavano. Quando poi ebbero sedato i lamenti né più si udiva alcuna voce, ma regnava un silenzio assoluto, si levò verso di lui – alta e improvvisa – la voce di qualcuno. È il dio che in più modi, e insistentemente, lo chiama: “Su, Edipo, perché tardiamo a muoverci? Da troppo tempo ti fai aspettare”» (vv. 1620-1628).
Ma che significa quella frase sibillina: “Da troppo tempo ti fai aspettare”? I due versi lasciano un margine di ambiguità: Edipo sta tardando “in quel momento” a causa del prolungato saluto alle figlie, o tarda “da troppo tempo” nel senso che da lungo tempo è atteso dagli dèi?
L’effetto della chiamata divina è comunque immediato; Edipo affida le figlie a Teseo (v. 1631) e chiede alle fanciulle di allontanarsi, senza assistere a ciò che è a loro proibito. Dall’imminente evento sacro sono esclusi i profani, coloro che non hanno diritto ad accostarsi ai segreti più profondi dell’esistenza. Tutti, tranne Teseo, si allontanano. Avviene quindi la “sparizione” del protagonista, di cui non resta alcuna traccia.
Solo Teseo potrebbe dire come sia scomparso Edipo; il nunzio si limita a fare un’ipotesi: “forse la base stessa della terra, la sede oscura dei morti, si è squarciata a lui propizia” (vv. 1661-1662). Conscio dell’incredulità che può derivare dalle sue parole, il messaggero proclama di non curarsi di chi lo prende per pazzo (vv. 1665-1666) e rispecchia qui il pensiero del poeta, consapevole della straordinarietà di questo sorprendente finale.
Dunque Edipo, colpevole di parricidio e incesto, diventa sorprendentemente un privilegiato, un eletto. Si apre, proprio alla fine, un nuovo sorprendente capitolo nella sua travagliata esistenza; il coro stesso invoca giustizia per Edipo poco prima di apprenderne la miracolosa sparizione: «Se da molti, / se da assurdi dolori fu vinto, / ora un dio gli renda giustizia / e nuovamente lo innalzi» (vv. 1565-1567).
Questo è l’insegnamento di Sofocle, che era anche quello di Erodoto (si pensi al celebre episodio di Creso e Solone nel I libro): non si può giudicare felice o infelice un uomo prima che arrivi l’ultimo giorno della sua vita. Solo in quel momento la verità definitiva viene fuori, smentendo spesso tante apparenze precedenti. Edipo sembrava l’uomo più sventurato del mondo: forse invece nessuno come lui è stato amato dagli dèi, che hanno “teleguidato” la sua vita, attraverso i più terribili dolori e orrori, fino all’ultimo passo in cui lo hanno chiamato a sé.
Sintesi mirabile di tutta la concezione religiosa sofoclea sono le parole che Ismene aveva rivolto al padre: “Adesso gli dei ti risollevano, come prima ti rovinarono” (v. 394). Sono gli dèi, realmente esistenti ma lontani e imperscrutabili, a muovere ogni passo dell’esistenza umana, a tessere le fila della nostra misera esistenza. Altro che Anassagora, altro che “uomo misura di tutte le cose”!
Aggiungo due considerazioni conclusive.
1) Inevitabile è l’accostamento del dramma con il momento vissuto da Sofocle stesso; anch’egli, ultraottantenne, doveva sentirsi (ed era) vicino alla morte. A questo proposito, appare superata la tradizionale interpretazione critica che privilegiava il contesto “idilliaco” di questo dramma; si è infatti esaltato anche troppo il lirismo, la contemplazione della bellezza dei luoghi, il contesto “rasserenante” del demo natìo di Colono.
Alcuni indizi testuali inducono invece a credere che con questo dramma, ed in particolare nel I stasimo (per il quale rimando alla splendida trattazione di Dario Del Corno), Sofocle abbia inteso dare un messaggio civile e patriottico al popolo ateniese, affidandogli una sorta di testamento spirituale, nel quale si sovrappongono diversi temi: la morte di Edipo, la morte di Sofocle, la drammatica situazione storica di Atene (che stava per soccombere a Sparta al termine della lunga guerra del Peloponneso), la tenace speranza di una via di salvezza per la città.
2) Sia pure nell’ambito di un messaggio che appare positivo (Edipo “svanisce” per salire fra gli dèi, Atene potrà risorgere), appare innegabile l’immutato, costante, cosmico pessimismo sofocleo, espresso in termini di assoluta desolazione (che ricordano certe espressioni di Mimnermo e Semonide) nel III stasimo: “Non veder mai la luce / vince ogni confronto, / ma una volta venuti al mondo / tornare sùbito là donde si giunse / è di gran lunga la miglior sorte” (vv. 1224-1227).