A Voltri, nel ponente genovese, sorge la maestosa villa Duchessa di Galliera. Qui un lume perennemente acceso, di fronte a una Madonnina bianca con bambino posta in una nicchia degli archi sotto il grande viale centrale, è ben visibile ai marinai che costeggiano la spiaggia.
Fu un’infelice nobildonna genovese a chiedere alla Duchessa di Galliera di mantenere sempre acceso quel lume, in cui forse voleva eternare la fiamma del suo amore tormentato. La Duchessa di Galliera rispettò sempre questo voto ed anzi impose, per testamento, che lo rispettassero anche i suoi eredi, che oggi sono i cittadini di Genova, dato che la villa è passata al Comune.
La marchesa che aveva voluto fortemente quel lume si era uccisa a Genova il 30 aprile 1841, a soli 33 anni d’età, anche – se non soprattutto – a causa di un tormentato amore con Camillo Benso, conte di Cavour.
La donna si chiamava Anna Schiaffino, detta Nina, sposata Giustiniani: era nata a Parigi il 9 agosto 1807, figlia unica del barone Giuseppe Schiaffino (di Recco) e di Maddalena Corvetto (figlia di quel Luigi Emanuele Corvetto, ministro delle finanze francese, consigliere di Napoleone Bonaparte, cui è dedicata la famosa piazza genovese).
Con la Restaurazione, il barone Schiaffino passò (senza troppi problemi di coerenza) al servizio di Luigi XVIII e fu poi nominato console generale di Francia a Genova. La famiglia si trasferì quindi in Liguria, nell’abitazione di Palazzo Doria Spinola in Strada Nuova (oggi via Garibaldi), dove avevano sede gli uffici del consolato.
La formazione culturale di Nina era iniziata nel gran palazzo parigino di Rue des Moulins, in un ambiente ricco di stimoli e di novità, con insigni precettori francesi; proseguì poi a Genova con una zia (Anna Littardi, coltissima nobildonna) e con il nonno Luigi Corvetto (che le trasmise la passione dell’arte, della musica e della lettura). Accanto al francese, sua lingua madre (le sue lettere a Cavour sono quasi tutte in francese), studiò italiano, inglese, tedesco, lettere e scienze (oltre all’immancabile e doverosa arte del ricamo).
Forse non era eccezionalmente bella, ma aveva un grande fascino che le veniva dalla sua vasta cultura e dal suo carattere volitivo, che – come scrivono gli storici dell’epoca – evidenziava “intelletto vivace, spirito arguto e grazia spontanea”. Si appassionò soprattutto ai temi politici del momento e fu molto sensibile al desiderio di cambiamento che si stava diffondendo in Europa in concomitanza e in contrasto con la Restaurazione assolutista.
All’età di diciotto anni, Nina fu chiesta in sposa da uno dei più illustri rappresentanti della nobiltà genovese, il marchese Stefano Giustiniani; era costui un giovane di ventisei anni, freddo e calcolatore, tarchiato e non particolarmente attraente, arido e noioso, scettico e cinico, intrigante e politicamente reazionario. Dunque, era l’opposto di Nina: ma i genitori di lei, come allora si usava, acconsentirono alle nozze nella speranza che la figlia potesse “sistemarsi” ai più alti livelli sociali ed economici.
Il matrimonio fu fastosamente celebrato nella Chiesa della Maddalena, nell’estate del 1825; gli sposi abitarono in piazza San Siro, nel Palazzo De Mari. Nel giro di due anni nacquero due figli: Teresa e Giuseppe. La nascita dei bambini non riuscì però a riempire la vita di Nina, che era sempre più angosciata e depressa per aver sposato un uomo che non amava e non stimava.
Proprio in netta opposizione alle idee politiche del marito, la marchesa animò a casa sua dal 1827 un frequentato salotto filo-repubblicano, svolgendo attività patriottiche, raccogliendo fondi e facendo attiva propaganda per conto della Giovine Italia mazziniana.
In questi “salotti” erano ammessi nobili e borghesi, che potevano anche esprimere opinioni diverse, ma sempre nel rispetto delle regole dell’educazione e del buon gusto. Vi si leggevano e commentavano eventi, testi, articoli di giornali; si conversava, si declamavano o si improvvisavano poesie. Le donne, benché all’epoca vivessero in una condizione subalterna, avevano in questi ambiti gli stessi diritti degli uomini; anzi, nei salotti era in genere proprio la donna a decidere chi ammettere e chi no.
Fra gli ospiti più assidui del salotto di Palazzo De Mari furono Agostino Spinola e Giacomo Balbi Piovera (che saranno condannati per i moti del 1833), Nicola Cambiaso e Bianca Rebizzo (moglie di Lazzaro Rebizzo e futura amante di Rubattino, l’“armatore dei Mille”). Fra i frequentatori del salotto erano anche molti giovani ufficiali della guarnigione militare di Genova; tra questi si distinse ben presto, per intelligenza, cultura, capacità dialettica e concretezza pragmatica un giovane tenente di vent’anni: era Camillo Cavour.
Il futuro primo ministro piemontese era allora un giovane inquieto, ostile al clima clericale e oscurantista che si respirava nel Piemonte di Carlo Felice. Aveva già viaggiato in Europa, conosciuto gli ideali mazziniani e abbandonato la fede. La famiglia lo considerava un figlio problematico, al contrario del fratello Gustavo, serio e compassato.
Come scrive Francesca Allegri, «Camillo Benso Conte di Cavour non ha certo l’aspetto nobilmente pensieroso di Mazzini o la bellezza gagliarda di Garibaldi o, infine, le sembianze un po’ rudi e quasi contadinesche di Vittorio Emanuele I; fra i padri della patria è quello che sembra avere il minor fascino virile. Mai impressione fu più errata: il Conte fu in gioventù un accanito frequentatore di case da gioco e un impenitente tombeur de femmes; non bellissimo, aveva quello che alle signore piace più della bellezza: il fascino. Amò molto, ma spesso con una certa superficialità e fu quindi più amato che amante, ma tutte, anche quando, e succedeva spesso, era lui a lasciarle, lo definirono buono, e non è certo un complimento da poco per donne che erano state abbandonate»
In qualità di tenente del Genio, Cavour fu assegnato a Genova, una città che rispecchiava pienamente il suo stato d’animo, perché come lui era frustrata e delusa, dopo la forzata ammissione alla monarchia sabauda nel 1815.
Fra Nina e il giovane tenente nacque un’immediata intesa; lei ne capì subito le potenzialità: «Verrà il giorno – gli scrisse – nel quale il tuo ingegno sarà messo in evidenza».
Come emerge dal diario di Cavour, la loro relazione nacque nel disprezzo per le convenienze, nella comune passione politica e nell’incoscienza della gioventù, tanto che non fecero nulla per nascondere l’attrazione reciproca e per rispettare le convenzioni sociali. Tuttavia Giustiniani, il marito di lei, minimizzò sdegnosamente: «Quella per Cavour? È solo una passione. La verità è che Nina non è in possesso delle sue facoltà mentali».
Intanto il re Carlo Felice, contrariato dalle idee “giacobine” del giovane Cavour, lo richiamò a Torino alla fine del 1830 e nel marzo 1831 lo confinò nel forte di Bard, in Val d’Aosta. Iniziò per Camillo un periodo di sbandamento: tornato a Torino, si diede al gioco, all’alcool, a effimere avventure galanti («Impiego davvero bene il mio tempo», annota nel suo diario, forse amaramente).
Intanto le lettere appassionate di Nina a Camillo restavano senza risposta; lui stesso, in seguito, si rese conto di essere sparito senza giustificazione: «Quando penso alle sofferenze terribili che ha subito a causa mia, mi viene una rabbia contro di me, mi accuso d’insensibilità, di crudeltà, d’infamia!».
Nina tuttavia, inasprita, procedeva imperterrita per la sua via, coerente con le sue idee politiche: alla morte del detestato Carlo Felice (27 aprile 1831), si presentò in teatro con altre quattro dame del suo “salotto” (Teresa Durazzo, Carolina Celesia, Fanny Balbi Piovera e Laura Dinegro) indossando abiti sgargianti di colore azzurro, rosso, porpora e ocra (anziché i vestiti neri a lutto dettati dalla circostanza). Per Nina la protesta era duplice: per la perduta indipendenza di Genova e (soprattutto) perché Carlo Felice, appena cinque mesi prima, aveva richiamato a Torino il suo caro Cavour.
A causa dello scandalo suscitato dal suo comportamento, il marito decise di allontanare Nina da Genova; nella casa paterna di Polànesi (frazione di Recco), in collina, Nina continuò però a pensare a Camillo e scrivergli lettere appassionate. La sua vita divenne insopportabile: non frequentava più nessuno, il marito la controllava, la madre la osteggiava, gli amici la evitavano per timore di essere denunciati, molti la consideravano una fanatica o una pazza. Nel frattempo il suo amato Camillo aveva altri effimeri amori e continuava la sua vita disordinata.
Nel 1834 Nina si trasferì a Milano, ospite della cugina Teresa Littardi; ottenne il permesso motivandolo con l’esigenza di consultare specialisti per forti dolori alle gambe. In quell’occasione, mentre era in stato di esaurimento nervoso, fu corteggiata da Carlo Pareto, che apparteneva a un’antica famiglia genovese e anche lui più giovane di lei di qualche anno; Nina cedette e ricambiò l’amore di Pareto, non senza confessarlo poi a Cavour.
Nel frattempo i medici le diagnosticarono un “disordine al sistema cardiaco” (il che in fondo era vero…) e le consigliarono una visita presso il cardiologo Francesco Rossi a Torino.
Nel giugno 1834 Nina e il marito arrivarono nella capitale sabauda e soggiornarono in un albergo alle terme di Vinadio. Questa località era a pochi chilometri da Valdieri, dove Cavour trascorreva lunghi periodi con la madre; Nina dunque riprese a scrivere diverse lettere al giorno al suo amato, lusingandone anche l’orgoglio: «Eri tu che la sorte aveva segnato come mio ultimo sostegno; tu pieno di forza, di vita, di talento; tu chiamato forse a percorrere la più brillante carriera».
La notte del 24 giugno Nina e Cavour si incontrarono di nascosto nell’albergo dove la marchesa soggiornava, mentre Stefano era momentaneamente assente. La relazione fra i due ripartì intensa più che mai: i loro incontri si susseguirono senza interruzione, mattino e pomeriggio, in un delirio di furiosa passione.
Cavour però era già molto diverso dal giovane tenente idealista che Nina aveva conosciuto a Genova. Era scontento della piega che aveva preso la sua vita, non vedeva prospettive per l’avvenire, era deluso dagli amici e dalla vita, tanto da annotare sul suo diario: “Se non fosse per certi dubbi che mi restano sulla moralità del suicidio, in verità mi libererei ben presto di questa fastidiosa esistenza”. Forse anche con questo “sbandamento” interiore si giustifica il suo rituffarsi nella passione per Nina, che poteva apparirgli un punto fermo; sicuramente – come si vede dalle seguenti righe – la stimava molto: «piena di delicatezza, costantemente evita di parlarmi di sé medesima, dei suoi lunghi dolori, delle sue crudeli sofferenze». In quel momento forse il conte credette davvero di avere trovato l’anima gemella: «Non abbandonerò mai più questa femmina celeste. La mia esistenza le sarà consacrata. Sarà la luce della mia vita, l’unico oggetto dei miei sogni, dei miei ricordi».
Il marito di lei, finora molto remissivo, iniziò a intercettare le lettere fra i due; tuttavia, al ritorno in Liguria, nel castello di Voltri, dovette tollerare che Camillo continuasse a frequentare Nina e che facesse con lei lunghe passeggiate e gite (ad es. a Vesima e all’Acquasanta).
Nina però cominciava a rendersi conto dell’impossibilità di questa relazione, temendo anche che la loro posizione “scandalosa” potesse nuocere alla “brillante carriera” che lei immaginava per il suo Camillo.
Parallelamente, lui “frenava” Nina e la invitava a sua volta alla prudenza, forse anche perché la sua incostanza stava riemergendo; ebbe infatti una relazione con la marchesa Clementina Guasco di Castelletto, conosciuta un anno prima a Torino, arrivando a commissionare al pittore Romanini un suo duplice ritratto (uno per Nina, l’altro per Clementina); commentò la situazione nel suo diario facendo spietatamente autocritica: «Sono un indegno, un infame, la mia condotta è orribile».
Il 17 settembre 1834 il conte partì da Voltri; vi tornò un’ultima volta, tra il 15 e il 18 ottobre successivo, prima di partire per Parigi: fu quello l’ultimo incontro con Nina, che subito dopo gli scrisse un commosso addio: «Addio mio Camillo, mio tutto, sola luce che rischiara la notte profonda che mi circonda. Tu sarai tutto per me, nei giorni e nell’eternità».
Intanto Giustiniani si era trasferito con Nina a Palazzo Lercari Parodi a Genova, al n. 3 di via Garibaldi, che divenne per la donna una sorta di prigione. Stefano sparse la voce che Nina fosse matta e impedì a parenti ed amici di vederla; anche i genitori di lei si rifiutarono di frequentarla, finché non avesse giurato di aver scordato Cavour.
Ma lei continuava a scrivere all’uomo che amava: «Amarti con passione è forse follia? È follia vederti, scrivere e morire per te? Credono che sia matta? Li compiango, non sanno comprendere l’amore». Una lettera, quella del 25 aprile 1835, è in genovese: «Camillo bello, te vueggio tanto ben, ma quando te ou porrò dì? Sono tanto fiacca, a me existensa a le così precaria che non ho coraggio da pensà a l’avvegnì… Te daggo tanti baxi. Tutta to Nina» (“Camillo bello, ti voglio tanto bene, ma quando potrò dirtelo? Sono tanto stanca, la mia esistenza è così precaria che non ho il coraggio di pensare all’avvenire… Ti mando tanti baci”).
Come afferma Francesca Allegri, dalla lettura dell’epistolario «si ha l’impressione che questa passione, poco vissuta e molto vagheggiata, diventi a poco a poco, man mano che Camillo si allontana, l’alibi che copre un male di vivere inguaribile e che più che l’amore a distruggere la Contessa sia la sua impossibilità ad adattarsi alla quotidianità. Nata per essere l’eroina di un romanzo romantico, con tutti gli ingredienti di prammatica (il marito freddo e insensibile, i genitori sordi al suo affetto, la minaccia del convento e del manicomio), la Schiaffino non riesce a vivere la normalità di una vita che pur sempre era e restava privilegiata, tre figli, grandi possibilità economiche, cultura, lusso e, se non altro la possibilità di seguire le proprie idee e anche di fare del bene».
Cavour, in giro per l’Europa, rispondeva sempre più tiepidamente a questo tumultuoso effluvio epistolare. Tuttavia nell’estate del 1835, promise a Nina di tornare a trovarla; ma un’epidemia di colera glielo impedì.
Nina allora fuggì di casa per raggiungerlo, ma fu fermata ad Asti da un ufficiale sanitario. Quando Camillo lo seppe, le consigliò freddamente di tornarsene a casa. Lei rispose con poche categoriche righe: «I tuoi consigli mi hanno decisa. Vedo che attaccandomi alla tua sorte ti renderei infelice. Se è vero che le nostre anime sono fatte l’una per l’altra, ci ritroveremo nell’eternità». Era il 3 agosto: pochi minuti dopo aver scritto queste righe, Nina bevve del veleno, che però non la uccise.
Quando il padre di Nina morì di colera, lei ritentò il suicidio il 1° gennaio 1838 (in quell’occasione scrisse così, in un terribile soliloquio: «Qual è l’essere che ami di più? Camillo. Qual è la cosa che desideri di più? La morte»).
Infine, nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1841, in coincidenza dell’anniversario del primo incontro con Cavour, Nina scrisse le sue ultime righe indirizzate a Camillo: «La donna che ti ha amato è morta. Non era bella. Aveva sofferto troppo. Quello che le mancava lo sapeva meglio di te. È morta, dico, e in questo dominio della morte ha incontrato antiche rivali. Se essa ha ceduto loro la palma della bellezza nel mondo ove i sensi vogliono essere sedotti, qui ella le supera tutte: nessuna ti ha amato come lei. Nessuna!”.
Subito dopo si gettò dalla finestra della sua camera di Palazzo Lercari Parodi: nonostante il salto di undici metri, non morì subito, ma solo dopo sei giorni di atroci sofferenze. Una leggenda genovese vuole che ogni anno, a fine aprile, all’anniversario della sua morte, sotto il palazzo, il suo fantasma faccia comparire, ancora oggi, l’immagine del suo corpo sul selciato.
Fu sepolta nella chiesa dei Cappuccini a Genova. Né il marchese Giustiniani – che si risposò – né le famiglie di origine degli Schiaffino e dei Corvetto vollero che fosse seppellita nelle rispettive tombe di famiglia a Voltri, Recco e Nervi.
Sulla sua tomba si legge oggi questa iscrizione: «ANNAE SCHIAFFINI CORVETTO, PRIDIE CALENDAS MAIAS SUIS PATRIAEQUE EREPTAE STEPHANUS EX GIUSTINIANEIS D. CHIENS PARVIQUE NATI UXORI MATRIQUE OPTATISSIMAE INSOLABILES PONEBANT. MDCCCXLI»
Qualche anno dopo Cavour diventò ministro e dal 1852 fu capo del governo del Regno di Sardegna; nel 1861, al sorgere del Regno d’Italia, morì a giugno, a soli 51 anni.
L’ultima lettera di Nina Giustiniani, l’unica donna che lo avesse mai amato veramente, forse non gli era mai arrivata. Ma restano per noi queste lettere appassionate, in cui Nina riversava tutta la sua passione (e le sue tante frustrazioni) in questo amore impossibile e improbabile: «Io non so nulla tranne d’amarti tanto. Tu sei tutto per me. Sei un essere soprannaturale. Tu assorbi tutti i miei pensieri, tu mi domini…. Voglio la tua felicità prima della mia… Camillo, sono tua per sempre»
P.S.:
Parte della corrispondenza fra Nina Giustiniani e Cavour è stata raccolta da un collezionista americano, Henry Nelson Gay, dopo che fu ritrovata nello stipo segreto di uno scrittoio appartenuto a Stefano Giustiniani; una restante parte del carteggio è stata recuperata fra le carte private dello stesso Cavour.
Oggi le lettere si possono consultare liberamente, a Torino: sono strette da un nastro insieme a una ciocca di capelli castani, quelli della povera Nina.