Catullo, Lesbia e suo marito: il triangolo no

Il carme 83 di Gaio Valerio Catullo presenta la donna da lui amata, che egli cantò con lo pseudonimo di “Lesbia”, a colloquio con il marito. Oggetto della discussione non è un contrasto fra i due coniugi; la donna invece ce l’ha proprio con Catullo, il giovane che di lei è perdutamente innamorato ma di cui lei ora sparla apertamente (“mala plurima dicit”, v. 1).

Ecco anzitutto il testo del carme, seguito da un mio tentativo di traduzione.

Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit:

     haec illi fatuo maxima laetitia est.

Mule, nihil sentis? Si nostri oblita taceret,

     sana esset: nunc quod gannit et obloquitur,

non solum meminit, sed, quae multo acrior est res,

     irata est. Hoc est, uritur et loquitur.

«Lesbia, davanti al marito, parla malissimo di me:

questa, per quel balordo, è la più grande gioia.

Bestia, non capisci niente? Se tacesse, dimenticandosi di me,

sarebbe sana: ma ora abbaia e ingiuria,

quindi non solo mi ricorda, ma – cosa ancora più grave –

è infuriata. Il fatto è questo: brucia e parla».

Il bello, come si vede, è che lo “sparlato” sembra perfettamente al corrente dello sfogo della sua Lesbia.

Come mai? Gli fischiano le orecchie? O forse qualcuno gli ha riferito la conversazione? Ma chi? Un’altra persona presente alla scena? Un amico? Un servitore ficcanaso? O, magari, la stessa Lesbia al loro successivo incontro? Oppure il poeta ha immaginato la situazione deducendola dall’atteggiamento della donna?

O ancora, ipotesi più irriverente, Catullo ha costruito a tavolino questo componimento per recitarlo poi a Clodia e farsi insieme quattro risate alle spalle del marito di lei?

Certo va esclusa, per palesi limiti tecnologici del tempo, la presenza di qualche “cimice” nella stanza nuziale dei due coniugi…

Fatto sta che Catullo non sembra preoccuparsi più di tanto delle malevole ingiurie di Lesbia: anzi, nel constatare che Metello prende atto con grande gioia (maxima laetitia, v. 2) dell’atteggiamento della donna, lo definisce fatuus (“balordo”, v. 2) e mulus (“bestia”, v. 3). A suo parere, infatti, l’astio della puella conferma che non è “guarita”, che non ha scordato il suo amante, che anzi è ancora “arrabbiata” (irata est, v. 6), forse in seguito a un recente litigio.

È proprio la rabbia che la fa “guaire” (come farebbe un cagnolino) e “ingiuriare” (gannit et obloquitur, v. 4); ma in definitiva, se Lesbia è così irritata, ciò significa che ama ancora Catullo, che “si ricorda” (meminit, v. 5) benissimo di lui e che, insomma, “parla e brucia” (uritur et loquitur, v. 6) al tempo stesso.

Se è valida l’identificazione di Lesbia con Clodia, il marito è senz’altro Quinto Metello Celere, che fu (nientemeno!) governatore della Gallia Cisalpina dal 64 al 62 e console nel 60 a.C.; era stato anche ospite del padre di Catullo (agiato proprietario nella zona di Verona).

Quando Catullo iniziò la relazione con Clodia, Metello era ancora vivo; ora, se il  “triangolo” donna/marito tradito/amante a noi può apparire scontato,  in realtà nella letteratura latina non era mai stato presentato; per di più il mulus Metello era, come si è detto, un uomo politico piuttosto in vista. Il poeta tuttavia non esita a mostrare il rivale come una persona stupida e vanesia, che non è in grado di leggere nel cuore della sua donna.

Per di più, nel breve carme il poeta esprime un concetto freudiano ante litteram: sembra consapevole, infatti, del concetto di “negazione”, cioè il procedimento con cui qualcuno, pur provando evidentemente un certo sentimento, vorrebbe rimuoverlo e “negarlo”. In altre parole, Catullo intende dire che Lesbia sparla di lui perché lo ama.

Ancora una volta nel poeta veronese odio e amore si intrecciano paradossalmente: infatti, a parte il celebre Odi et amo (carme 85), anche il carme 92 presenta una situazione analoga: «Lesbia sparla (Lesbia mi dicit semper male), non smette mai di sparlare /  sul mio conto. Che io crepi se non mi ama (Lesbia me dispeream nisi amat). / Sintomi uguali per me. Io la stramaledico / ogni giorno (deprěcor illam / assidue). E che io crepi se non l’amo (dispeream nisi amo)» (trad. Enzo Mandruzzato).

Un’ultima precisazione: il carme 83 ha il suo terminus ante quem nell’anno 59 a.C., data di morte di Metello; deve dunque appartenere a una fase “iniziale” del tormentato rapporto fra il poeta e la donna amata. Di conseguenza, ammesso e non concesso che Lesbia abbia “parlato malissimo” di Catullo, doveva essere pronta e disposta, per il momento, a fare pace quanto prima.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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