Quando un attore deve dire una sola battuta…

L’inizio delle rappresentazioni teatrali a Siracusa, in occasione della 59° Stagione di spettacoli classici al Teatro greco, organizzati dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico, offre l’opportunità di fare qualche considerazione sul mestiere dell’attore teatrale, che presenta innumerevoli difficoltà, ben note a tutti coloro che ne hanno avuto esperienza. Infatti, oltre ai normali problemi di dizione, di memoria, di gestualità, di immedesimazione nel ruolo, di sensibilità, possono verificarsi situazioni sceniche particolarmente impegnative.

Una delle cose più sgradevoli per un attore è fare la parte del… morto: nell’ “Aiace” di Sofocle (che ieri sera ha aperto il ciclo degli spettacoli siracusani) il protagonista si uccide a metà dramma e poi resta sulla scena, cadavere, per oltre mezzora; per l’attore significa restare a terra, assolutamente immobile, senza poter muovere un dito, senza poter starnutire, grattarsi, cacciare il moscerino fastidioso, sgranchirsi un po’…

Altrettanto difficile è reggere un lungo monologo: ad es. nei drammi dell’antica Grecia sono frequenti i lunghi discorsi (“rhéseis”) dei messaggeri, che sulla scena possono durare anche un quarto d’ora; oltre a una memoria di ferro, questi monologhi richiedono capacità non indifferenti di “catturare” l’attenzione del pubblico e di farsi ascoltare senza provocare noia. In proposito, ricordo un sensazionale monologo del grande Gigi Proietti nella parte di un messaggero, che nell’“Edipo re” di Sofocle annunciava il suicidio di Giocasta e l’autoaccecamento di Edipo: il grande attore riuscì ad esprimere straordinariamente la drammatica alternanza di toni e di sentimenti, tanto che avrebbe potuto continuare anche un’ora fra gli applausi del pubblico.

C’è poi una particolare difficoltà, in genere riservata agli attori che ricoprono parti secondarie: quella di dover pronunciare una sola, unica battuta in tutto lo spettacolo; analizzeremo questa situazione con riferimento alle “Coefore” di Eschilo.

In questo dramma, Oreste torna nella sua patria Argo per vendicare la morte del padre Agamennone, ucciso dalla sua sposa Clitemestra, che intendeva così vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia (uccisa dal padre per consentire la spedizione a Troia); complice del delitto è stato Egisto, l’amante della donna.

Nel II episodio Oreste, fingendosi un forestiero della Focide, comunica alla madre Clitemestra la falsa notizia della morte del figlio. La regina, dopo aver simulato disperazione, ma in realtà gioiosa per una notizia a lungo attesa, accoglie Oreste e il suo amico Pilade come ospiti nella reggia. Nel successivo episodio i due giovani anzitutto uccidono l’usurpatore Egisto; quindi affrontano Clitemestra e si ha un drammatico estremo dialogo.

Nel momento culminante dello scontro, Oreste sta per colpire a morte la madre, che gioca una carta disperata; si scopre il seno e fa appello alle leggi della pietà filiale: «Fermo! Fermati, figlio! Devi avere rispetto, figlio mio, di questo seno, dal quale tu da bambino con le tue gengive succhiavi il latte che ti dava la vita e poi ti addormentavi» (vv. 896-898; la traduzione che uso qui è mia).

Di fronte al seno della madre, Oreste, profondamente smarrito, si rivolge a Pilade: “Pilade! Che devo fare (τί δράσω)? È mia madre! Ho orrore di ucciderla!” (v. 899). La domanda propone la situazione tragica per eccellenza, quella della scelta ardua e definitiva che tormenta un personaggio.

A questo punto si verifica un fatto sorprendente (quello che i Greci chiamavano “aprosdòketon”); infatti Pilade, per la prima volta in questo dramma, apre bocca e pronuncia un’unica, categorica battuta: “E dove vanno a finire allora gli oracoli del dio ambiguo, i vaticini della Pizia di Delfi, i saldi giuramenti? Tutti puoi considerare tuoi nemici; tutti, ma non gli dèi” (vv. 900-902). Come si vede, Pilade parla in nome degli dèi e di Apollo in particolare, dichiarando che il matricidio è stato ordinato dalla volontà divina e che non è possibile per un uomo opporsi al volere delle divinità.

Il precedente silenzio del personaggio, che era sembrato strano in diverse occasioni (ad es. mentre Oreste riabbracciava la sorella Elettra o quando i due giovani si presentavano a Clitemestra sotto mentite spoglie), acquista un significato profondo proprio in funzione di queste uniche, decisive parole, che evidenziano una profonda verità religiosa: quando l’uomo non sa decidere e si smarrisce, chiedendosi che cosa fare, gli dèi proclamano le loro verità assolute, incontrovertibili e definitive.

Dopo il severo richiamo di Pilade, Oreste è ormai determinato a compiere il matricidio; vana è dunque l’ultima minaccia di Clitemestra, che gli prospetta la persecuzione da parte delle Erinni. L’ultima battuta che il figlio rivolge alla madre è come una categorica sentenza: “Hai ucciso chi non dovevi uccidere. Ora soffri quello che non dovresti soffrire” (v. 930).

Con riferimento alla “battuta unica” di Pilade in tutto il dramma, si è già detto quanto una situazione del genere sia impegnativa per un attore.

Non si contano gli aneddoti in proposito. Eccone uno, che ho un po’ rielaborato.

Un giovane attore, appena uscito dall’Accademia d’arte drammatica, fu scritturato nella parte di un maggiordomo con un’unica battuta da pronunciare: “Il pranzo è servito”.

Emozionato e coinvolto, il ragazzo ripeté cento volte in un giorno la battuta, provandone tutte le intonazioni, analizzandone ogni sfumatura, centellinandone ogni sillaba.

La notte prima dell’esordio, emozionatissimo, praticamente non chiuse occhio, immaginandosi sempre quello che sarebbe accaduto: la sua entrata in scena, il silenzio di tutti, il pubblico in attesa delle sue parole, l’attenzione generale rivolta su di lui; nel concitato dormiveglia immaginava di dire la sua battuta in mille modi diversi, sentendosi ora orgoglioso ora deluso del risultato.

La sera dello spettacolo, mentre attendeva il suo turno, continuò a ripetere più e più volte la famigerata battuta (“Il pranzo è servito, il pranzo è servito, il pranzo è servito”), sia mentalmente sia a voce alta.

Infine toccò a lui: entrò in scena emozionatissimo e concentratissimo, con un vassoio in mano.

Vide il pubblico numeroso e attento in sala, vide gli altri attori che lo guardavano e aspettavano la sua battuta; allora, come avvenne al sarto manzoniano, “raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l’arco dell’intelletto, cercò, frugò, sentì di dentro un cozzo d’idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva”…

E disse: “Il servo è pranzito”.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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