Tomasi di Lampedusa e il clima siciliano

Nel suo “Gattopardo”, Tomasi di Lampedusa non perde occasione per esternare la sua idiosincrasia per il clima rovente della Sicilia: e dire che era vissuto in un’epoca anteriore a quella odierna, non ancora tormentata dalle lunghe ondate di calore portate dall’anticiclone africano (migrante anche lui, dal suo al nostro continente).

Legato in qualche modo alla “teoria dei climi”, nata già con Aristotele e rielaborata poi da Jean Bodin alla metà del sec. XVI e da altri pensatori nel secolo dei lumi (in particolare da Montesquieu), Tomasi descrive in modo ricorrente e quasi ossessivo il “crudele” clima siciliano, che diventa a suo parere uno degli elementi “narcotizzanti” e paralizzanti che condizionerebbero in negativo la storia dell’isola.

Già nel I capitolo, quando il principe di Salina scende (accompagnato dal fedele cane Bendicò) nel giardino della sua villa, alcuni fiori evidenziano gli effetti anomali dell’“apocalittico” clima siciliano: «Le rose Paul Neyron le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi erano degenerate: eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un denso aroma quasi turpe che nessun allevatore francese avrebbe osato sperare» (p. 22; cito dalla prima edizione di Feltrinelli, 1958).

È però nel secondo capitolo, che si svolge nell’agosto 1860, che l’autore ha maggiore occasione di descrivere potentemente la torrida estate siciliana.

Il lungo ed estenuante trasferimento della famiglia del Principe, da Palermo al feudo di Donnafugata, avviene in carrozza, attraverso le desolate lande dell’interno dell’isola: «Adesso erano le undici e per quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghe lente arrancate delle salite, al passo prudente nelle discese; passo e trotto, del resto, egualmente stemperati dal continuo fluire delle sonagliere che ormai non si percepiva più se non come manifestazione sonora dell’ambiente arroventato. Si erano attraversati paesi dipinti in azzurro tenero, stralunati; su ponti di bizzarra magnificenza si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero, mai una goccia d’acqua: sole e polverone. All’interno delle vetture, chiuse appunto per quel sole e quel polverone, la temperatura aveva certamente raggiunto i cinquanta gradi» (pp. 67-68).

Non a caso, appare liberatorio il grido entusiastico che apre il capitolo: «Gli alberi! Ci sono gli alberi!»; infatti l’apparizione messianica di un po’ di vegetazione appare come la scoperta della terra promessa: «Quegli alberi assetati che si sbracciavano sul cielo sbiancato annunziavano parecchie cose: che si era giunti a meno di due ore dal termine del viaggio; che si entrava nelle terre di casa Salina; che si poteva far colazione e forse anche lavarsi la faccia con l’acqua verminosa di un pozzo» (p. 68).

La famiglia Salina scende dalle carrozze per una sosta ristoratrice e ne approfitta per un picnic in campagna; lo scenario, tutt’intorno, è desolato: «Intorno ondeggiava la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate; il lamento delle cicale riempiva il cielo; era come il rantolo della Sicilia, arsa che alla fine di agosto aspetta invano la pioggia» (p. 70; come si vede, la nostra isola non ha mai smesso di “rantolare” invano in attesa di un acquazzone provvidenziale che metta fine a mesi e mesi di assoluta e devastante siccità…).

La scena del picnic nel “Gattopardo” di Visconti

Quando il principe e i suoi familiari arrivano a Donnafugata, sono accolti con il “Te Deum” nel Duomo; durante la cerimonia la principessa «era sul punto di venir meno per il caldo e la stanchezza» (p. 79). Quando finalmente tutti possono uscire, si ritrovano «nella piazza abbrutita dal sole» (id.).

In serata, all’orizzonte appare qualche nuvola, che induce a illusorie speranze: «dalla parte del mare immani nuvoloni color d’inchiostro scalavano il cielo. Forse la collera di Dio si era saziata, e la maledizione annuale della Sicilia aveva avuto termine? In quel momento quei nuvoloni carichi di sollievo erano guardati da migliaia di altri occhi, avvertiti da miliardi di semi nel grembo della terra. “Speriamo che l’estate sia finita, che venga finalmente la pioggia” disse Don Fabrizio; e con queste parole l’altero nobiluomo cui, personalmente, le piogge avrebbero soltanto recato fastidio, si rivelava fratello dei suoi rozzi villani» (pp. 93-94).

Ma dopo cena non c’è più traccia di quelle nuvole: «il cielo era sgombro di nuvole: quelle che avevano salutato a sera se ne erano andate chissà dove, verso paesi meno colpevoli, nei cui riguardi la collera divina aveva decretato condanna minore. Le stelle apparivano torbide e i loro raggi faticavano a penetrare la coltre di afa» (pp. 103-104).

Il terzo capitolo del “Gattopardo” è ambientato nell’ottobre 1860 ed inizia con un’introduzione meteorologica: «La pioggia era venuta, la pioggia era andata via; ed il sole era risalito sul trono come un re assoluto che, allontanato per una settimana dalle barricate dei sudditi, ritorna a regnare iracondo ma raffrenato da carte costituzionali. Il calore ristorava senza ardere, la luce era autoritaria ma lasciava sopravvivere i colori, e dalla terra rispuntavano trifogli e mentucce cautelose, sui volti diffidenti speranze». Sotto questo sole “costituzionale”, riportato a più miti propositi, il principe di Salina passa «lunghe ore a caccia, dall’alba al pomeriggio» in buona compagnia («insieme a Teresina ed Arguto, cani, e a don Ciccio Tumeo, seguace»).

La forte connotazione “meteoropatica” di Tomasi emerge principalmente in occasione del IV capitolo, in cui il Principe riceve la visita del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, incaricato dai piemontesi di offrire a don Fabrizio un seggio in senato. Nel colloquio il Principe rifiuta la proposta, motivandola con la sua ben nota teoria dell’immobilismo siciliano e invitando invece i piemontesi alla nomina dello spregiudicato don Calogero Sedàra (rappresentante della rampante ed emergente borghesia isolana).

Burt Lancaster (il principe di Salina) e Leslie French (Chevalley) in una scena de “Il Gattopardo”, film di Luchino Visconti (1963)

Fra gli aspetti che don Fabrizio ritiene deleteri per la Sicilia, egli sottolinea particolarmente il clima inclemente e opprimente: «D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio li dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete» (pp. 211-212).

Chevalley replicherà con un estremo invito a vincere la rassegnazione (“il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare”, p. 215), che cadrà però inascoltato di fronte al granitico scetticismo di don Fabrizio (e del suo autore).

La prospettiva “climatica” di Tomasi di Lampedusa rientra nella sua voluta contrapposizione tra Sicilia e “Continente” o, se vogliamo, tra Sicilia e “non-Sicilia”. La Sicilia è presentata come una terra “estrema” nel bene e nel male: il suo ambiente naturale e umano appare affascinante, non privo di mistero, splendido in molte sue manifestazioni, ma al tempo stesso legato all’inganno, all’omertà, alla falsità, al culto dell’apparenza, all’opulenza ostentata e alla miseria più degradante. Parallelamente, la “non-Sicilia” è connotata come un ambiente privo di grandi misteri, trasparente, esplicito, razionale, animato da (apparenti) buone intenzioni progressiste, ma al tempo stesso mediocre, piatto, burocratico, ambiguo, estraneo, sostanzialmente grigio e deludente. Entrambi i mondi dunque sono monchi e incompleti, in una comune visione pessimistica e immobilistica.

Quando Chevalley riparte, osservazioni climatiche e considerazioni negative compongono un’ennesima descrizione desolante: «Chevalley s’inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio. Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo; fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì il vetro per l’ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile» (p. 219).

Come è stato giustamente osservato, «Nella conclusione del celebre dialogo tra Salina e Chevalley, la irredimibilità del clima della Sicilia […] viene strettamente collegata con il “sonno” ricercato dai siciliani e con il loro scetticismo verso ogni forma di cambiamento. Se si rilegge un passaggio di questo dialogo, […] ci si accorge immediatamente come il paesaggio non sia un semplice sfondo, più o meno esotico, su cui si stagliano gli eventi narrati, ma un vero e proprio attore che partecipa alla determinazione semantica della vicenda (e, più in generale, della Storia): un elemento che, se pure non può essere considerato come l’unica causa della condizione storica e antropologica del popolo siciliano, senza dubbio contribuisce – sostiene don Fabrizio – alla sua formazione» (Gianfranco Marrone, Valori e paesaggio nel Gattopardo, “Rassegna europea di letteratura”, n. 15, 2000).

Non a caso, infine, la morte del Principe avviene nel pieno della rovente estate siciliana: il VII e penultimo capitolo del “Gattopardo” è infatti ambientato nel luglio 1883.

 Il viaggio del Principe a Napoli (per uno stancante quanto inutile consulto medico) ha aggravato ulteriormente le sue precarie condizioni di salute; egli ora si trova all’albergo Trinacria, dove si è ricoverato in seguito a un malore. Lo scenario climatico è, come sempre, angosciante: «Era il mezzogiorno di un lunedì di fine Luglio, ed il mare di Palermo, compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava lì sopra piantato a gambe larghe e lo frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce Don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui» (p. 285).

In quel contesto, circondato dall’affetto dei parenti, il Principe trova finalmente la pace tanto invocata; e la Morte assume per lui le accattivanti sembianze di una giovane donna affascinante: «Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia ‘tournure’, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina guantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto» (p. 297).

Fuori, intanto, c’è da crederlo, il sole siciliano picchia implacabile.

Alla tetra concezione climatica di Tomasi è giusto e doveroso contrapporre altre voci, di segno opposto; per motivi di spazio, basteranno tre esempi.

All’inizio dell’Ottocento l’agronomo ed economista siciliano Paolo Balsamo (1764-1816), a lungo docente presso l’Accademia di Agraria ed Economia di Palermo, dopo avere soggiornato per anni all’estero aveva così valutato il clima siciliano: «È il nostro cielo uno dei più felici d’Europa, perché l’inverno è quasi una continua primavera; gli attivi calori dell’estate sono quasi regolarmente temprati da freschi piacevoli marini venticelli: ed in questa stagione nelle nostre alture e monti un’aria si respira piacevolissima, particolarmente quando vestiti son gli alberi» (Giornale di viaggio fatto in Sicilia, Palermo 1809, p.303). A proposito poi della mancanza d’acqua, Balsamo osservava: «È vero che la nostra campagna sarebbe assai bella, e fruttifera, se non mancassero quasi assolutamente le piogge da maggio fino a settembre; ma a queste si può in qualche modo riparare, col mettere a profitto le acque, ed estendere il più possibile le irrigazioni» (ibid.). Peccato che il concetto di “mettere a profitto le acque” da questa parti sia molto utopistico se non irreale…

In particolare, poi, possono essere illuminanti (per sfatare il pessimismo “climatico” tomasiano) queste riflessioni di Leonardo Sciascia, formulate in alcuni interventi sui giornali del Canton Ticino nel 1959, a pochi mesi dalla pubblicazione del “Gattopardo”: “Noi sappiamo bene che, in quanto a clima e paesaggio, l’Arabia non è da meno della Sicilia: e ciò non ha impedito a un popolo disperso e indolente di muovere alla conquista di tutte le terre mediterranee. Perciò siamo più portati a sottoscrivere le idee dell’ebreuccio tedesco [Karl Marx] che le considerazioni climatico-ambientali del principe di Salina» (cfr. www.olschki.it).

Infine, una lancia a favore del clima siciliano è stata spezzata in epoca ben più recente, due anni fa, dall’ambientalista siciliano Giuseppe Giaimi (già  dirigente dell’Ispettorato Ripartimentale delle Foreste di Messina e docente universitario): «è proprio grazie al clima che la Sicilia, dipinta da viaggiatori e poeti come il “giardino del Mediterraneo”, ha sempre potuto vantare una biodiversità tra le più elevate del Vecchio Continente in tutti i campi (flora, fauna, agricoltura, forme di allevamento), rendendola a lungo così attrattiva. Ancora oggi (vedi congresso sulle sementi antiche di grano tenutosi a Roma il 16 maggio 2022), il 25% della biodiversità agraria europea si concentra nell’Isola».

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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