Continuiamo la rassegna di vocaboli ed espressioni del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana. Eccone altri tre.
1) “Làstima” – Il termine indica una scocciatura, che procura disagio e talora anche tormento; il Mortillaro lo spiega con «dolore, tormento, affanno, disgusto, e dicesi più dell’animo che del corpo». Parallelamente, un “lastimusu” è uno che crea “làstime” e che quindi risulta fastidioso e inopportuno. C’è anche un verbo siciliano, “lastimiari”, che significa (sempre secondo Mortillaro) «raccontare afflizioni, affine [sic!] di ottenerne conforto o semplicemente dare noia, affanno, dolore». Insomma, si può dire che una “làstima” è una versione ridotta (ma non troppo) della ben più nota “camurrìa”, che è una scocciatura forte e insopportabile, come “camurrusu” (o “camurriusu” secondo le zone) è chi risulta estremamente scocciante.
Va detto poi che il termine “làstima” è di sicura origine spagnola; in quella lingua il termine significa “pena, dolore, fastidio”: «le dio lástima verlo en aquella condición» vuol dire “gli fece pena vederlo in quello stato”; “¡qué lástima que no puedas venir!” significa “peccato che tu non possa venire!”.
Dal termine spagnolo deriva anche “làstima” in lingua sardo-logudorese, nella quale il termine ha principalmente il valore di “compassione, pietà” (“hapo lastima de cussa povera criadura”, “ho compassione di quella povera creatura”), ma è usato anche come esclamazione di rammarico (“làstima!”, cioè “peccato!”). Esiste anche un ottimo vino sardo, un Vermentino di Gallura chiamato appunto “Làstima”.
2) “Sbagnare” – Verbo festoso e molto ricorrente nell’italiano regionale di Sicilia; lo si usa per indicare i festeggiamenti per una cosa andata bene: si “sbagna” un successo nel lavoro, una promozione, una laurea, un fidanzamento, una vincita all’enalotto, un acquisto (es. una macchina o una casa nuova), un qualunque momento fortunato e felice.
Il sostantivo parallelo è “sbagnamento”: si fa (anzi, si “deve” fare) uno “sbagnamento” nelle occasioni su elencate o in altre che comportano un’esternazione della propria felicità e del proprio successo. Ad esempio: “Totò deve sbagnare il suo nuovo villino”; “Finalmente sei guarito del tutto? Dobbiamo sbagnare!”; “Il Palermo è andato in serie A? Dobbiamo sbagnare!” (magari…).
Se ne deduce che è falso il cliché che considera i siciliani chiusi e “mutàngheri”; essi invece sono molto portati alla festa (almeno tanto quanto lo sono al lutto), anche per mostrare agli occhi degli altri il proprio valore e anche… per far morire d’invidia il prossimo.
L’etimologia del termine “sbagnare” non viene detta da nessuno (anche perché oggi se non viene in soccorso un “copia-incolla”, nessuno sa dire niente di niente), ma il vocabolario del Traina spiega “sbagnari” con «spruzzare d’acqua o bagnare leggermente, dicesi spezialmente di panni, biancherie, ecc.»; ipotizzerei dunque che il verbo derivi dall’uso popolare di chiamare un sacerdote per spruzzare acqua benedetta in una casa nuova o davanti a una coppia di sposi, o per un bimbo appena nato, ecc.
3) “Crasto” – Sostantivo che indica anzitutto l’agnello castrato (non a caso il termine ancor più preciso è “crastagneddu”). Il Mortillaro si dilunga in una macabra e barocca precisazione: «montone privato della facoltà di generare, non per castrazione assoluta, ma per rompitura dei canali spermatici, senza cavarne i testicoli, onde non è più buono per razza, ma s’ingrossa e serve di cibo agli uomini». In effetti la carne di “crasto”, se arrostita a dovere sulla brace, è molto gustosa (anche se alquanto “inchiummusa”, cioè difficile da digerire); a casa è difficile cucinarla, perché si è subito avvolti dal fumo intenso che promana dalla brace, sicché uno “sganascio” di carne di “crasto” è più indicato all’aperto, nelle gite in campagna.
Manco a dirlo, il termine “crasto” è utilizzato anche in senso metaforico: un “crasto” è dunque una persona odiosa, antipatica, un “cornuto” (il “crasto” ha grandi corna…), ma anche un furbacchione. Come scrive Roberto Alajmo, il termine «può significare malandrino, malintenzionato. Ma assume pure il senso di furbo o furbastro, nei casi in cui non si riesce a nascondere l’ammirazione per il malfattore che riesce a farla franca – se riesce a farla franca, altrimenti il crasto fa presto a passare direttamente alla categoria dei fessi» (“Abbecedario siciliano”, Sellerio 2023, p. 51).
A questo proposito, ecco una curiosità: anni fa ad Augusta (in provincia di Siracusa) un tale, che si era sentito dare del “crasto”, denunciò il suo avversario; tuttavia, in data 11 giugno 2012, il giudice di pace assolse l’accusato, sostenendo che «il termine “crasto” nel dialetto siciliano ha un significato corrispondente a quello di “furbo” o “furbastro”, e che, comunque, di solito, identifica il “montone”»; dunque tale epiteto, benché poco elegante, non consentiva di contestare il reato di “ingiuria”. L’offeso però, ritenendosi “cornuto e bastonato”, non si diede pace e fece ricorso in cassazione. Buon per lui, la V Sezione Penale di Catania, con sentenza n. 2905/14 depositata il 22 gennaio 2014, capovolse la precedente sentenza, sottolineando come il termine “crasto” abbia anche la valenza di “cornuto” e “testa dura”, per cui l’offesa c’era e andava sanzionata.
Attenzione, dunque, a dar del “crasto” agli altri: chi di crasto ferisce, di crasto può perire.
Chiudiamo qui: non vorrei diventare una “làstima” per la mia consueta prolissità poco facebookiana; vi auguro di “sbagnare” al più presto qualche felice ricorrenza e di festeggiare con un’abbuffata di carne di “crasto” (i vegetariani invece potranno accontentarsi dell’uso metaforico del termine).