Uno dei più bei romanzi della serie dedicata da Maurizio De Giovanni al commissario Ricciardi è “Per mano mia. Il Natale del commissario Ricciardi”, pubblicato nel 2011 e ambientato a Napoli nel 1931.
Il romanzo è ambientato nell’atmosfera affascinante e struggente del Natale napoletano, nello stridente contrasto fra le luccicanti vetrine delle strade del centro parate a festa e l’avvilente miseria dei borghi di pescatori e dei quartieri popolari.
In queste giornate festive, il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, il dolente protagonista di questa serie, colui che ha lo sventurato dono di “vedere” e “sentire” i morti di morte violenta, si trova a dover indagare, con il fidato brigadiere Raffaele Maione, sul duplice omicidio di un caporione fascista e di sua moglie, barbaramente uccisi nella loro bella casa.
Al di là della trama “gialla”, come sempre avvincente e condotta con grande abilità narrativa, il romanzo è affascinante per la notevole abilità dell’autore, che rende vivo e palpitante il contesto del Natale a Napoli, con una grande cura nei dettagli e soprattutto con una straordinaria abilità di ricreare l’atmosfera degli anni Trenta del secolo scorso.
In particolare, alcune pagine – che potrebbero apparire divagatorie rispetto all’indagine – forniscono una più profonda chiave di lettura alla comprensione del tutto, proprio perché immergono la vicenda “in toto” nel particolare contesto del ventennio fascista e perché, soprattutto, grondano una napoletanità verace, profonda, sincera, che riesce però a diventare anche emblematica di uno scenario natalizio universalmente condivisibile.
Citerò qui di seguito alcuni passi che, in questa ottica, mi piacciono particolarmente (faccio riferimento alla riedizione del romanzo, pubblicata da Mondadori nel settembre 2021).
1) Del Natale l’autore coglie anzitutto il lato passionale, emozionale, senza esitare però a denunciarne anche le ipocrisie: «Il Natale è un’emozione. Può durare un anno intero, nell’attesa di un regalo, di un nuovo bacio, di un dolce mangiato alla luce di candele rosse. Ha il sapore di mandorle e cannella, di perline di zucchero e di brodo di gallina. Il Natale è un’emozione. Viaggia sulla luce di mille lampadine, su fili elettrici dipinti di nero per dare l’impressione di stelle cadute dal cielo, agitate dal vento. Si riflette in tante voci che si scambiano finto affetto, abbracci dimenticati e auguri di ogni bene» (p. 86).
2) Nei giorni che precedono il Natale, Napoli per De Giovanni diventa “un unico immenso mercato”:
«Per raggiungere l’ufficio Ricciardi e Maione furono costretti a passare attraverso centinaia di mendicanti, riffaiuoli, rigattieri, acquaioli, lustrascarpe, tutti occupati ad accaparrarsi i clienti altrui; l’aria era impregnata di odori, la frittura, la pizza, i maccheroni, i frutti di mare, le mandorle caramellate; bisognava stare attenti a non calpestare la merce esibita su lenzuola sporche stese al suolo, vasi, bicchieri, posate e utensili» (p. 48).
3) Un passo molto bello descrive la domenica che precede il Natale:
«Quella prima di Natale è una domenica assai strana.
È un po’ domenica, perché suonano le campane fin dal primo mattino; perché l’aria è quella della festa, coi tempi e i modi delle giornate fintamente senza impegni; perché molte botteghe rimangono chiuse e qualche commerciante ricco si consentirà un’ora di sonno in più; perché le ragazze penseranno a qualche incontro clandestino, se il papà o la mamma le manderanno a fare qualche commissione che per pigrizia non vorranno sbrigare direttamente. Ma non è solo domenica.
È un po’ festa, perché i mendicanti sciameranno fuori le chiese per mettere i bigotti di fronte alla loro miseria, per spuntare un soldo o due; perché venditori di palloncini e castagnole prenderanno posizione nella Villa Nazionale, coi mezzi guanti e il volto coperto da stracci di lana per combattere il vento, richiamando i bambini con la merce e facendo loro paura per l’aspetto; perché i profumi di mandorle caramellate, di castagne arrosto, di carciofi alla brace e di pizze fritte saranno portati ovunque dal vento, facendo aumentare la saliva in tutte le bocche e gorgogliare gli stomaci. Ma non è solo festa.
È un po’ Natale, perché i marciapiedi sono invasi di merce stesa su lenzuola vecchie, e ognuno vende qualsiasi cosa, lecita o non lecita, in ogni grande via di passeggio e in ogni vicolo adiacente; perché i potenziali clienti sono costretti a camminare sulla strada, prendendosi strombazzate e schizzi di fango dalle automobili e dalle carrozze; perché i negozianti di frutta e quelli di salumi hanno preparato grandi archi di merce colorata: per smontarli ci vorrebbero delle ore e quindi già da giorni non chiudono più, e rimangono la notte a chiacchierare tra loro, imbacuccati nelle coperte e col braciere davanti; perché i capitoni guizzano vispi nelle grandi vasche dipinte di azzurro come il mare, lungo via Santa Brigida, e ogni tanto uno sguscia per strada e il pescatore lo insegue tra le gambe delle donne che scappano terrorizzate. Ma non è ancora Natale» (pp. 100-101).
Colpiscono, in questo brano, la ricchezza dei particolari e la cura dei dettagli, che ci immergono nel particolare contesto del 1931: le ragazze che cercano il pretesto per recarsi agli incontri clandestini, i mendicanti che si appostano all’uscita delle chiese, i venditori di palloncini e castagnole, le specialità gastronomiche, i marciapiedi invasi da ogni tipo di mercanzie, i “grandi archi di merce colorata”. Sembra proprio di trovarsi nel secolo scorso (o forse anche oggi), a Spaccanapoli o in via Toledo e via Santa Brigida o a San Gregorio Armeno, fra il vocìo incessante dei commercianti e dei passanti, fra le mille luci sfavillanti, con le raffiche di un vento gelido che viene dal mare, in mezzo all’esposizione di un’abbondanza tanto pacchiana quanto effimera e illusoria. Ed è divertente l’immagine di quel capitone, destinato a imminente fine, che “sguscia per strada”, inseguito dal pescatore “tra le gambe delle donne che scappano terrorizzate”.
4) Del resto, anche in un altro passo il capitone, “vivo e morto” al tempo stesso, diventa l’indiscusso protagonista:
«Se il pesce è il principe delle tavole natalizie, il capitone ne è sicuramente il re. Questa grossa anguilla dalla mascella sporgente, grassa e viscida, in perenne movimento, portata a casa istupidita dal cartoccio in cui viene avvolta, si rianima appena la si getta in acqua per lavarla e ridiventa simile a un serpente, sotto gli occhi terrorizzati e affascinati dei bambini che assistono alla cruenta preparazione per non dimenticarla mai più. I pezzi tagliati, infatti, continuano a muoversi nel sangue come se fossero dotati di vita propria, come se l’animale fosse in grado di sconfiggere la stessa morte, fino a quando, impanati nella farina, approdano alla padella per diventare il piatto principale della cena di Natale, contornato dalle tipiche foglie d’alloro. A via Santa Brigida le vasche coi capitoni erano letteralmente prese d’assalto, man mano che il tempo passava e si avvicinava l’ora del ritorno a casa. Uno dei venditori più attivi, un bel ragazzo bruno dal sorriso accattivante e dalla voce profonda, attirava le donne prendendo in mano gruppi di capitoni e rimestando nel vascone che aveva davanti, urlando: – So’ vive e so’ muorte, capitune verace, ‘e Icore d’o Diavulo!» (p. 268).
5) Un successivo passo del libro rende ancora meglio lo stridente contrasto fra il calore della festa e il gelido squallore riservato a chi non può permettersi nessun lusso. Il brano è giocato proprio su una sorta di ritornello altalenante e antitetico (“Il Natale è caldo / Il Natale è freddo”), che risulta quanto mai efficace per sottolineare le contraddizioni insanabili di questa giornata particolare:
«Il Natale è caldo.
Dalle finestre delle case di via Toledo e di Chiaia arriva la luce delle candele, il suono delle risate. A guardare dentro si possono intravedere facce allegre, guance rosse di vino e di spumante, anche se manca ancora qualche giorno. C’è aspettativa, un senso di sospensione. Ci sarà una festa, e tutti saranno felici.
Il Natale è freddo.
Il vento ulula per le strade dei nuovi quartieri, dove nelle baracche ci si stringe uno addosso all’altro per trovare riparo e calore. Ad ascoltare bene si sente piangere un bambino, ma il pianto è sempre più debole per il freddo e per la fame. Chissà chi di loro passerà l’inverno. Chissà chi di loro respirerà ancora, a gennaio.
Il Natale è caldo.
Le mamme sorridono accarezzando la testa ai figli, decidendo se li vestiranno da marinaretti come l’anno precedente o se ormai sono abbastanza grandi per fare la fotografia con tutti i parenti, la sera della vigilia, con la prima giacca e la cravatta, il volto serio sotto una pettinatura perfetta.
Il Natale è freddo.
L’uomo torna a casa con un pezzo di pane, l’unica cosa che ha trovato dopo una giornata passata a cercare un posto in qualche cantiere. Lo ha rubato da un carretto, ha corso per un’ora. Ha sei bocche che lo aspettano, e ha fame anche lui. Si ferma, si siede a terra e ne mangia un po’. Piange nel vento.
Il Natale è caldo.
Il nonno compie ottant’anni, proprio il giorno di Natale. Davanti alla stufa di maiolica, sorseggiando il brandy dopo cena, i figli ascoltano i ballabili alla radio e si chiedono cosa regalargli, giacché ha tutto quello che gli può servire, avendo guadagnato tanto perché è stato un grande medico. Ridono, e decidono di comprare una nuova giacca da camera, come l’anno prima. Ma il nonno morirà all’improvviso il 23 dicembre, e la vestaglia non uscirà mai dalla scatola.
Il Natale è freddo.
Sotto il ponteggio di un cantiere vicino al porto la vecchia mendicante rantola: ha perso conoscenza. La bronchite, il freddo e la fame alla fine hanno vinto. Sogna di cantare una ninna nanna, ha avuto sedici figli e glieli hanno portati via a uno a uno, non sa nemmeno se siano vivi o morti: ma ricorda di aver cantato la ninna nanna, una volta: a un figlio suo, o al figlio di un’altra. Ha avuto sedici figli, e muore da sola sotto il ponteggio di un cantiere. Domani la getteranno via insieme ai suoi stracci, in una fossa piena di gente come lei.
Il Natale, caldo o freddo, mette i brividi» (pp. 145-146).
In questo passo, alle immagini liete e calorose (le “facce allegre”, le “guance rosse di vino e di spumante”, le mamme che sorridono e accarezzano i figli, il nonno che compie ottant’anni) se ne contrappongono altre gelide e tristi (il vento che “ulula per le strade dei nuovi quartieri”, il pianto dei bambini che soffrono “per il freddo e per la fame” e che potrebbero non arrivare all’anno nuovo, l’uomo che torna a casa – dove sei bocche lo aspettano – con un misero pezzo di pane rubato da un carretto, il nonno che morirà prima di Natale senza vedere il suo regalo, la vecchia mendicante che per strada sta morendo di bronchite, di freddo e di fame e ricorda i figli perduti).
E davvero, in questa bella pagina, De Giovanni riesce a farci sentire che «il Natale, caldo o freddo, mette i brividi».
6) Infine, non manca l’attenzione all’aspetto gastronomico del Natale: Rosa, la “tata” di Ricciardi, prepara la cena della Vigilia e il pranzo di Natale secondo un rigido cerimoniale cilentano (il commissario, barone di Malomonte, è originario di Fortino):
«Alla vigilia si mangiava rigorosamente di magro: lo scàmmaro, spaghetti fatti in casa con alici, olive, capperi e peperoncino; cavolfiori, patate e broccoli di contorno e rinforzo, e il baccalà alla salernitana, impanato, fritto e messo al forno sotto una cascata di cipolla bianca, pomodorini che avevano atteso l’occasione per mesi appesi al balcone e olive verdi. Il pranzo di Natale era un’altra cosa: per quello si preparavano i fusilli, arrotolandoli a uno a uno attorno a una stecca d’ombrello a sezione quadrata, che sarebbero stati conditi col denso sugo di carne e sommersi di formaggio di capra stagionato e grattugiato; a seguire, il fianchetto di manzo in brodo e gli scauratielli, le zeppole fritte nell’olio bollente in forma di serpentelli intrecciati, da ricoprire di miele e mangiare all’istante» (pp. 217-218).
Un vero trionfo della cucina tradizionale cilentana, rievocato affettuosamente e minuziosamente dalla fantasia dell’autore; e la cupa vicenda “gialla” che sta alla base del libro riesce anche in questo caso a trasformarsi in un quadro umanissimo e coinvolgente, che conquista la simpatia e l’attenzione del lettore.
Così, fra ricordi personali, affettuose rievocazioni della vita della sua città, analisi profonde dello spirito dei suoi concittadini e descrizioni luminose della realtà napoletana, Maurizio De Giovanni si candida, a mio parere, a raccogliere più che degnamente il testimone lasciato da Andrea Camilleri, portando nuova linfa e nuove energie creative nella produzione letteraria italiana.