Centodieci anni fa, il 22 gennaio 1915, a Palermo nasceva Ernesto Ponte, padre di mia moglie Silvana.
Ernesto, dopo la laurea in Legge, conseguita a Palermo nel novembre 1938, combatté nella II guerra mondiale in Croazia, con il grado di capitano. In quegli anni difficili, in una zona pericolosa e tra aspri combattimenti, fu protagonista di un episodio che gli fece onore, poiché salvò la vita di un suo giovane caporale.
Ho raccontato ampiamente questa storia, bella e commovente, in questo blog (https://pintacuda.it/2021/12/09/il-capitano-che-salvo-il-suo-caporale/); qui basterà ricordarne qualcosa, che servirà a capire meglio il carattere e la personalità di mio suocero.
La sera del 28 settembre 1942, al termine della sanguinosa battaglia di Josipovac, in Croazia, fra i numerosi feriti della IX batteria del 57° Reggimento artiglieria da montagna c’era anche Ernesto Ponte, che era il più giovane comandante di batteria (aveva allora 27 anni).
I soccorritori stavano per trasportare subito all’ospedale l’ufficiale, come era consuetudine; c’era un solo posto nell’ambulanza. Ma mio suocero, benché ferito a un’anca, vide accanto a sé il caporale Alessandro Martin (che aveva 23 anni), originario di San Biagio di Callalta nella marca trevigiana, che era in condizioni disperate per una tremenda ferita alla testa: non vedeva più e stava per morire dissanguato. Allora il capitano Ponte, per quanto sofferente e sanguinante, ordinò di trasportare immediatamente Martin all’ospedale da campo a Ogulin. Proprio in quell’ospedale andò poi mio suocero, prima di lasciare la Croazia per una licenza di convalescenza, per vedere come stava Martin; ma lui era ancora fra la vita e la morte. L’ufficiale poté solo dargli un affettuoso buffetto prima di lasciarlo, senza parlare per non essere sopraffatto dall’emozione. Era convinto che Martin non ce la potesse fare e temeva che non l’avrebbe rivisto più.
Ma Martin aveva la pelle dura. E dopo meno di due mesi lasciò l’ospedale per una lunga convalescenza. Guarì del tutto, si formò una famiglia, ebbe quattro figli e lavorò come messo comunale al suo paese, San Biagio di Callalta. Ma non dimenticò mai il suo capitano, cui sapeva di dovere la vita; lo cercò senza sosta per anni, in un’epoca in cui non esistevano i social e ritrovare le persone era un’impresa quasi impossibile. L’indicazione giusta arrivò dopo ventidue anni, nel 1966, dall’anagrafe di Palermo, che gli fornì indirizzo e numero di telefono dell’ex capitano Ernesto Ponte, che era diventato costruttore edilizio, sposato e padre di una bambina (la mia futura moglie). Ernesto si commosse e si meravigliò al tempo stesso; iniziò quindi una fitta corrispondenza epistolare e telefonica: Martin voleva assolutamente rivedere il suo salvatore e non aveva i mezzi economici per venire quaggiù in Sicilia. Allora, nel 1967, fu mio suocero a decidere di andare a rivederlo; e con moglie e figlia giunse la sera del 19 agosto a San Biagio di Callalta, ove poté riabbracciare il suo caporale.
L’evento fu ricordato ampiamente in un articolo del giornale “Il Gazzettino”, con questo titolo: “Un caporale trevigiano abbraccia il capitano che gli salvò la vita”; la storia finì pure sul settimanale nazionale “Stop” (11/9/1967) e sul quotidiano palermitano “Telestar” (13/9/1967); rimando al già citato articolo del mio blog per i dettagli.
Io ricordo che, quando diventai “zito” ufficialissimo di mia moglie, mio suocero mi raccontava questo episodio con legittimo orgoglio; e ogni tanto, la domenica, capitava che squillasse il telefono e che si sentisse la voce squillante di Martin (a volte palesemente “allitrato” dal buon vino locale) che gridava col suo forte accento veneto: «Son Martin Alessandro da san Biagio di Callalta. Sior capitàn, le sente le campane?». E sullo sfondo si sentivano davvero le campane del suo paese, che forse a distanza di tanti anni festeggiavano ancora quella bella storia.
Dopo la guerra, Ernesto svolse l’attività di commerciante di legnami, per avviare poi una fervida quanto breve attività di costruttore, durata alcuni anni, in cui riuscì (con abilità, caparbietà, oculatezza e vivida intelligenza) a costruire per sé e la sua famiglia una solida posizione economica. Fu anche nominato cavaliere al merito della Repubblica nel 1957.
Dal matrimonio con Beatrice Palumbo nacque Silvana, mia moglie.
Io conobbi mio suocero sabato 27 marzo 1982; da pochi giorni io e Silvana “ci eravamo messi insieme”, sicché quel sabato, prima di uscire con amici, lei mi fece salire a casa sua; conobbi così i suoi genitori. Ricordo che Ernesto mi fece accomodare nel grande salone a L e, tenendosi accanto (stretta stretta) Silvana, conversò amabilmente con me per alcuni minuti, probabilmente facendomi anche contestualmente una radiografia potentissima (altro che raggi X)…
Nelle settimane successive abbiamo avuto modo di conoscerci sempre meglio e di chiacchierare a lungo. Lui, ex ufficiale, mi chiamava affettuosamente “bersagliere” (lo ero stato sotto le armi) e amava raccontare le tante vicende della sua vita avventurosa. Ascoltarlo era un piacere, soprattutto perché quando narrava certi eventi i suoi occhi brillavano di arguzia e di nostalgia.
Posso dire che, nei pochi anni in cui ho avuto la fortuna di conoscerlo, ho imparato molto da lui, fino a poterlo considerare un secondo padre, molto differente però dal mio: Ernesto era un bell’uomo brillante, di un’intelligenza vivida e soprattutto pratica, una persona concreta, sempre al passo con i tempi (già nel 1984 avrebbe voluto regalarmi un pc, quando ancora io non ne capivo il valore), di idee apertissime. Mia moglie ricorda quanto lui la abbia resa indipendente, attenta alle cose pratiche della vita, capace di cavarsela da sola; e tuttora infatti è lei l’addetta principale al “disbrigo pratiche” quotidiane, mentre io per natura ho una mente più “teorica” (ergo, meno male che c’è lei…).
Ernesto amava la famiglia, il buon cibo (era “liccu cannarutu” come me e su questo campo ci siamo incontrati subito), la compagnia. In particolare adorava viaggiare: non volle mai acquistare, pur avendone la possibilità, un “villino” a Mondello dove andarsi a imboscare in estate, preferendo invece vedere il mondo e (almeno un mese l’anno) girare per l’Europa con moglie e figlia. Del resto, era un provetto guidatore (nel 1974 l’ACI gli diede un diploma come “pioniere della guida” perché aveva conseguito la patente 40 anni prima).
Aveva anche, certo, i suoi lati più spigolosi (chi non li ha?). A volte si impuntava su qualcosa se la riteneva giusta e poteva apparire cocciuto (ma la sua era solo risolutezza); qualcuno talora avrà potuto considerarlo rigido su certe cose (ad es. nelle sue funzioni decennali di amministratore di condomini), ma in realtà era più lungimirante di altri, soprattutto più pratico e concreto in un mondo sempre più avviato a diventare un’immensa palestra di vacui parolai.
Purtroppo Ernesto morì troppo presto, stroncato da una grave malattia nel 1986, quando io e Silvana non avevamo celebrato neanche due anni di matrimonio.
Degli ultimi mesi ricordo le passeggiate nel corridoio della clinica, quando lo tenevo a braccio per farlo camminare un po’ ed era ormai molto provato dalle sofferenze. Allora, a volte, era preso da uno scoraggiamento che non aveva mai fatto parte delle sue abitudini, per cui io cercavo di consolarlo e di risollevarlo: ma avevo poco più di trent’anni, non avevo mai visto sofferenze simili e per me la vita vera era agli inizi…
Oggi, a 110 anni dalla sua nascita, mi piace ricordare Ernesto Ponte con tutta la stima, l’affetto e la devozione che merita un uomo straordinario quale egli fu. Ho piacere, in particolare, che possa restare il suo ricordo anche nella memoria di mio figlio Andrea, che non ha mai conosciuto neanche quest’altro suo nonno.
E spero infine che, da qualche parte del cielo, su qualche nuvoletta, Ernesto possa oggi organizzare una bella mangiata di quelle che piacevano a lui: «E che diamine, “bersagliè”, sarebbe il minimo!».