Il “Dialogo di un folletto e di uno gnomo” è un breve testo scritto da Giacomo Leopardi nel 1824, appartenente alle “Operette morali”.
La narrazione si svolge in un mondo ormai deserto, dove un folletto (spirito dell’aria) e uno gnomo (che abita le profondità della Terra) si incontrano e discutono della scomparsa del genere umano.

Lo gnomo è stato mandato dal padre Sabazio a indagare su che cosa stia accadendo in superficie; apprende così dal folletto che gli uomini si sono variamente estinti: “Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male”.
Emerge ora la presunzione intellettuale e morale del genere umano, che aveva creduto di dominare il mondo; il folletto, infatti, chiarisce che la vita naturale continua imperterrita anche senza gli uomini, che si erano illusi di essere al centro dell’universo e di cui nessuno sente la mancanza: “le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli”.
In questo nuovo mondo “de-umanizzato”, anche la Fortuna ha perso ogni ruolo diventando, da cieca che era, perfettamente vedente: “mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo”. Svaniti i regni umani, dissolti gli imperi, finite (finalmente) le guerre: il tempo gira ormai su se stesso, in un eterno ripetitivo presente.
Tuttavia folletto e gnomo mostrano di avere anch’essi, per un attimo, una visione centrata sulla propria specie: il folletto ritiene infatti che il mondo sia stato fatto per i folletti e lo gnomo pensa che sia stato creato per gli gnomi; tuttavia entrambi, più saggi degli uomini, si rendono presto conto della relatività di ogni punto di vista, per cui il folletto conclude saggiamente: “lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”.
Il dialogo riflette il ben noto pessimismo leopardiano, evidenziando il tema dell’indifferenza della natura verso l’uomo: quest’ultimo si estingue nel nulla senza lasciare traccia, mentre la natura continua il suo corso imperturbabile.
Questa visione si collega ad altre opere leopardiane come il Dialogo della Natura e di un Islandese e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, nelle quali sono centrali il pessimismo cosmico e la critica alla condizione umana: l’uomo si illude, crede di essere il centro dell’universo e di poter dominare la natura con la ragione e la tecnica, ma questa presunzione è illusoria, perché la natura è una “matrigna” crudele e indifferente, una forza implacabile che sfugge a qualsiasi controllo.
Nel dialogo gli uomini sono definiti dallo gnomo “furfanti”, “monelli” e “ciurmaglia”: loro caratteristiche essenziali sono dunque la violenza, l’infantilismo e la volgarità. La notizia della loro sparizione viene definita “caso da gazzette”, con ironico riferimento a un giornalismo superficiale e dedito solo agli “scoop”; e veramente straordinaria è la constatazione che, estinti gli uomini, sono anche finite le guerre, loro creazione esclusiva. Dopo la sparizione del genere umano (che è stato solo una meteora nell’infinito numero di secoli di esistenza del pianeta), la vita cosmica continua come se nulla fosse: “ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi”.

Il dialogo leopardiano fa riflettere.
Viviamo in un’epoca che ha cancellato il passato o lo ha riscritto (in malafede) a sua immagine e somiglianza. Tuffati in questo meschino presente e in questo ineffabile secolo fatto di conflitti, violenze, ripicche, occhi per occhi e denti per denti, molti “leader” attuali ritengono di essere infallibili e onnipotenti, progettando e profetizzando “magnifiche sorti e progressive” per i loro regimi. Il futuro, se entra qualche volta nei loro pensieri, appare come una proiezione all’infinito dell’attuale presente, nell’assoluta incapacità di immaginare il diverso, l’estraneo, l’ignoto.
Ma basterebbe che qualcuno di loro aprisse un giornale di mezzo secolo fa e vi leggesse i nomi dei leader di allora, oggi spariti dalla scena politica se non dall’esistenza stessa, per fare la semplice addizione in cui 2 + 2 dovrebbe fare sempre 4. Anche i leader del 1975, forse e senza forse, si erano creduti eterni, avevano pensato che il Potere, il successo, il consenso sarebbero rimasti sempre con loro. Eppure sono bastati cinquant’anni, un atomo infinitesimale nei miliardi di anni dell’esistenza cosmica, a spazzare via sogni, illusioni, chimere e chiacchiere.
Fanno soltanto sorridere i decreti pretenziosi, i proclami perentori e le affermazioni categoriche di personaggi che riempiono le prime pagine dei giornali e dei telegiornali di oggi, ma che saranno inevitabilmente trasformati prima o poi – come dice Leopardi – in “ossami impietriti”.
E fra cinquant’anni, nel 2075, fra cinquant’anni, ammesso che esista ancora il mondo, chi di loro sarà ancora qui a sproloquiare?
Che senso avranno, allora, le misere rivendicazioni territoriali, le meschine ambizioni economiche, gli ottusi pregiudizi xenofobi, le persecuzioni rabbiose, le distruzioni cocciute, le devastazioni climatiche e ambientali, tutto ciò insomma che genera l’odierno “bellum omnium contra omnes”, la guerra continua quanto vana che avvelena l’esistenza pubblica e privata di ogni essere umano?
Se soltanto qualche “potente” della Terra avesse per un attimo la coscienza della sua effimera fragilità, dei limiti invalicabili della condizione umana, della labilità di ogni progetto ambizioso, del ruolo imprevedibile della sorte, forse strillerebbe di meno, vaneggerebbe di meno, ragionerebbe di più e soprattutto darebbe un valore diverso all’oggi, frenerebbe la vanità delle ambizioni dissennate, si sentirebbe più uguale agli altri nella comune transitoria caducità.
Lo diceva lo stesso Leopardi, più drasticamente e tragicamente, in un’altra delle Operette, il Cantico del gallo silvestre, quando affermava che anche l’universo intero sarà destinato a un’inevitabile estinzione: “Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empiranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi”.
Ecco, appunto: silenzio nudo e quiete altissima nello spazio immenso.
Con buona pace degli uomini, di ieri di oggi di domani, che si credono il sale della terra.