Il “niente radioso del meriggio”: la controra

“Controra” è un termine tipico della tradizione popolare meridionale, che indica le ore più calde del primo pomeriggio, generalmente tra le 13 e le 16. Il termine deriva dal latino “contra horas”, cioè “ore contrarie”, ad indicare una pratica contadina delle regioni dell’Italia meridionale, per cui nelle ore in cui il sole è più caldo si interrompono le attività lavorative.

In questa fase della giornata, caratterizzata da un caldo intenso e da una quiete quasi surreale, la frenetica vita quotidiana va in stand-by, le strade si svuotano, nelle case le persiane si chiudono e le serrande si abbassano. Chi non deve uscire per lavoro o per necessità si concede un riposino, oppure sprofonda in una “siesta” prolungata, degna del protagonista del brancatiano “Don Giovanni in Sicilia”.

I poeti del Sud hanno raccontato la “controra” con immagini di luce rovente, strade vuote, case silenziose, gesti lenti e svogliati. Così la descrive  Salvatore Di Giacomo in una lirica intitolata appunto “Cuntrora”: “Sto menato ncopp’’o lietto, / sto guardanno nnanze a me, / tengo ’o sole de rimpetto, / dinto ’o core tengo a tte! / Sento ’e vvoce d’ ’a cuntrora, / sento ’a gente cammenà, / nu rilorgio sona ll’ora, / nu guaglione chiamma: “Oi ma’!…”.

Più di recente, il poeta irpino Franco Arminio nella sua lirica “Cedi la strada agli alberi” ne parla così: “Nella controra / il paese è una bestia addormentata / che sogna la pioggia”.

La controra, insomma, diventa simbolo di una sorta di “niente radioso del meriggio”, come lo definiva Elsa Morante nel romanzo “L’isola di Arturo”.

Questa fase “morta” della giornata viene analizzata in modo eccelso nel seguente passo tratto da un bellissimo racconto della scrittrice e poetessa vittoriese Lidia Ferrigno, intitolato “Il mio paese è Macondo”:

«Pomeriggi seduti nella parte della strada all’ombra, pochi gli uomini, quelli non più in grado di lavorare, le donne invece a fare qualche lavoro di rammendo, di ricamo o di uncinetto, mentre i bambini, finalmente liberati dalle catene della siesta, giocavano a “mmuccia lucerta” o si allontanavano per le loro scorribande non si sa dove in giro per il paese. I bambini odiavano la controra, non avevano mai voglia di dormire e, spesso tenuti a forza a letto per consentire alla madre di riposare, scalciavano come muli contro la parete a cui era appoggiato il lettino non vedendo l’ora che cessasse quella tortura. Neanche la minaccia dei “malafrusculi”, delle “zzanne” o delle “lofie” che rapivano i bambini riusciva a terrorizzarli, sicché andava a finire sempre allo stesso modo: le madri infuriate che, disturbate da quei colpi insistenti e sempre più frenetici dati al muro, rinunciavano al sonno e liberavano i loro figli, non senza però prima avere dato loro una bella spolverata di botte dove capitava. L’indomani come il giorno precedente e il seguente: i bambini sapevano che questo era il prezzo da pagare per la loro libertà. La sera finalmente, finalmente l’ombra agognata con il vento di terra, paradisiaca carezza a lenire e sciogliere il grumo appiccicoso di salsedine e sudore, la sera delle stelle che in un cielo non ancora distratto da fumi luci scarichi, ne metteva in mostra tante, infinite, di cui con il naso in su si vedeva e si seguiva la scia che in un baleno andava a perdersi chissà dove, mentre in crocchio si raccontavano storie» (da “Il mio paese è Macondo – Racconti miti poesie”, ed. Armando Siciliano, Messina-Civitanova Marche 2018).

Vivacissima e molto realistica è qui la descrizione dei bambini che (mentre i “grandi” si arrendono alla legge narcotizzante della “controra”) recalcitrano (letteralmente) e rifiutano questa pausa forzata; del resto, come si può imporre una pausa a un bambino che ha un iperattivismo connaturato e non ammette interruzioni nella sua frenetica scoperta del mondo? Anche se la libertà di scappare era pagata con una “spolverata di botte dove capitava”, questo era un prezzo che si pagava volentieri.

Io, per fortuna, di simili “spolverate” non avevo alcun timore e posso quindi ricordare con un pizzico di nostalgia, indotta dai troppi anni passati, la “controra” di quando ero un ragazzino undicenne, sessant’anni fa.

Nell’estate del 1965 a luglio mio padre, che in quel momento era “ad interim” Direttore del Conservatorio “Paganini” di Genova, era rimasto nel capoluogo ligure al lavoro; io e mia madre, invece, eravamo scesi a Bagheria ai primi del mese e dopo qualche giorno ci eravamo trasferiti in una casetta di campagna di un mio zio sulla statale 113, a pochi passi dall’Hotel Zagarella di Sòlanto, fra Santa Flavia e Casteldaccia. Vi si accedeva da un cancello e c’era poi una ripida discesa (in dialetto “sciddicaloro”, proprio perché ci si poteva quasi “scivolare”) che sprofondava in mezzo ai limoni.

Quando arrivava la “controra” e i “grandi” dopo pranzo si riposavano stendendosi in una sdraio all’ombra dei limoni o mettendosi a letto al piano superiore, io ero esentato dal riposo forzato; così me ne andavo ad esplorare la campagna.

Allora non soffrivo il caldo e mi aggiravo fra gli alberi in canottiera e pantaloncini, con un buffo cappello di paglia in testa, seguendo il percorso delle canalette d’acqua che correvano fra i filari di limoni. Mi piaceva immergermi in quella campagna secolare, paragonandomi a un avventuroso esploratore in cerca di nuovi mondi.

Una volta mi spinsi sino al limite estremo della proprietà, dove sorgeva un antichissimo muro a secco, su cui era appoggiata una vecchia scala a pioli. Dopo un attimo di esitazione, salii su quella scala sconnessa con una certa circospezione, per vedere che cosa ci fosse al di là.

Erano forse le tre del pomeriggio e c’era un silenzio assoluto, rotto solo da qualche lieve folata ribelle di vento e soprattutto dal concerto impazzito di mille cicale invisibili.

In quel contesto irreale, arrivato in cima alla scala e guardando oltre, fui improvvisamente folgorato dall’apparizione di Capo Zafferano, l’aspro promontorio a strapiombo sul mare.

Capo Zafferano

Stava lì, incantevole, identico a come doveva essere apparso ai Fenici, ai Greci, ai Romani, agli Arabi, ai Normanni, agli Svevi, a tutti gli abitanti che nei secoli hanno vissuto in questa isola unica al mondo.

Non so perché questa immagine mi sia rimasta così impressa: ci sono cose che non si spiegano in un ragazzino di quell’età e ci sono ricordi tenaci che non riusciremo mai a spazzare via dalla nostra mente. Ricordo però che ebbi immediatamente l’impressione che quell’antico promontorio mi volesse rivelare un segreto indicibile e inspiegabile.

In quell’estate tornai spesso, in quella “ora della controra”, a rivedere quell’immagine magica; poi, quando ad agosto mio padre venne a raggiungerci in villeggiatura, fu lui a spiegarmi meglio quello che avevo visto: era “il cappello di Napoleone”. Infatti, visto da lontano, questo incantevole tratto di costa sembra mostrare il profilo di un antico cappello; e non a caso qualcuno, fantasiosamente, l’ha definito “il Cappello di Napoleone”, con riferimento al celebre bicorno di Bonaparte.

12 agosto 1965: io e Capo Zafferano (visto stavolta dalla collina di Solunto)

Quando poi rientravo nella casetta, la vita stava riprendendo: i grandi si prendevano “u cafè”, si tirava fuori dalla ghiacciaia qualche bibita fresca per i “picciriddi”, ci si preparava al pomeriggio mentre il sole cominciava a dardeggiare in modo più clemente (a quei tempi dopo le 17 c’era davvero una “arrifriscata” che rendeva piacevoli e vivibili le estati.

La sera poi, come scrive giustamente Lidia Ferrigno nel suo racconto, era il momento “delle stelle che in un cielo non ancora distratto da fumi luci scarichi, ne metteva in mostra tante, infinite”; ed era, aggiungo io, il momento in cui le cicale del turno di giorno, dopo ore di lavoro indefesso, smontavano e cedevano il campo ai loro colleghi grilli del turno di notte, che iniziavano a frinire senza mai finire.

Lontani ricordi, di un altro tempo, forse di un altro pianeta. La controra però esiste ancora (come no?) soprattutto nei paesi siciliani dell’interno, dove ancora in quelle ore canicolari si aggirano per le strade pochissimi sparuti accaldati passanti, dove ancora si vedono cani con la lingua penzoloni che si aggirano per i crocicchi, dove ancora tantissime persone sprofondano in quel sonno pomeridiano che le libera per qualche ora dai pensieri quotidiani.

Come scrive un altro poeta pugliese, il tarantino Raffaele Carrieri, «È l’ora che le lucertole parlano, / e l’ulivo trattiene il respiro. / Tutto è fermo, / come nel ventre della terra».

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. Carissimo prof.,come sempre ci incanta con i suoi racconti. Certo questa descrizione della sua esperienza giovanile, non può non farmi trovare indietro nel tempo, ovvero agli anni di nuove scoperte e della spensieratezza, buona domenica.

  2. Poesia pura.
    C’è tutto il nostro legame al Mediterraneo, la nostra appartenenza a genti e stirpi d’oltremare che hanno trasmesso nel nostro DNA l’indolenza o
    quella che Pino Daniele chiama “picuntria” che ci tiene al riparo dal solleone, ci fa cercare riparo dalla vampa dello scirocco, ci immobilizza nella controra.
    Bellissimo post, complimenti.
    E grazie infinite per la citazione.

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