Ieri, 20 giugno 2025, presso il Circolo Unificato dell’esercito a Palermo, è stato presentato il libro “Sapere – saper essere – saper fare” del colonnello Giuseppe Tagliareni. Dopo i saluti del Presidente dell’Associazione, dott. Nicola Criscuoli, gli interventi sono stati introdotti dal dott. Giovanni Arnone. Il libro è stato analizzato dal dott. Mario Midulla, da me e soprattutto dall’autore stesso.

Il col. Tagliareni è un ufficiale della riserva dell’Esercito, cui per diversi anni è stato assegnato l’incarico di selezionatore delle risorse umane per l’Accademia Ufficiali, per i sottufficiali e per il reclutamento dei volontari di truppa; è stato inoltre un “counselor”, esercitando il ruolo di tutor e di docente di seminari e workshop per questa specializzazione.
Il volume, pubblicato dalle edizioni Strillone a Corleone nel maggio 2024, è ricco di spunti di riflessione, spesso attualissimi; qui esaminerò alcuni aspetti che rendono questo volume particolarmente interessante e stimolante: tale è del resto l’intenzione dichiarata dell’autore, che nella Prefazione auspica per l’appunto di “stimolare nel lettore una libera e attenta riflessione sugli argomenti” affrontati (p. 5).

Il colonnello parte dalla sua “lunga esperienza quale manager e selezionatore di risorse umane” (p. 5), nonché “da una profonda azione introspettiva stimolata dagli studi specifici del counseling e dal successivo approfondimento delle teorie dei maggiori rappresentanti della psicologia umanistica esistenziale e della psicologia positiva” (id.).

Va sottolineato che, fin dall’inizio, emerge un atteggiamento di apertura, di umiltà, una “umiltà che è il risultato dell’interazione del coraggio e della modestia, necessari per mettersi in gioco e in discussione” (p. 6). Il testo dunque non sbandiera proclami “originali”, ma parte dalla citazione di “antropologi, sociologi, filosofi, psichiatri, psicologi, scrittori e persone illuminate che nel corso dei secoli hanno lasciato dei messaggi che invitano a ripensare e ricominciare” (id.)
Nell’introduzione viene chiarito e discusso il termine “counseling” che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è “un processo estremamente focalizzato nel tempo che, tramite la comunicazione, l’ascolto e l’interazione personale, aiuta gli individui a risolvere o a gestire i problemi, a rispondere in maniera più ragionevole, risolvere forme di disagio e bisogni psicologici” (p. 11).
L’esperienza dell’autore gli ha insegnato che non ci si improvvisa “counselor”; infatti “un counselor, al di là delle conoscenze specifiche, deve rispondere a tre regole”; in particolare: “1. non può aiutare l’altro se non sta bene con sé stesso (conoscenza della propria individualità, saper essere); 2. Non può dare all’altro quello che non ha […]; 3) non può comprendere l’altro se non ha provato o condiviso una sofferenza”. (pp. 13-14).

Questi aspetti sono evidenziati nel capitolo I, laddove si parla della cosiddetta “psicologia umanistica”; tale scuola, sorta all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso con l’apporto degli psicologi statunitensi Carl Rogers e Abraham Maslow: “È considerata la Terza Forza della psicologia, cioè una alternativa alla psicanalisi e alla psicologia cognitivo-comportamentale. […] Questa nuova scuola vede il paziente (cliente) protagonista consapevole, che sceglie ciò che vuole essere e vuole fare, attraverso la coscienza del sé […]. Il terapeuta, contrariamente al contesto psicanalitico ed al cognitivo-comportamentale, non consiglia e non suggerisce, ma accompagna il cliente attraverso degli stimoli mirati, affinché quest’ultimo aumenti anzitutto la consapevolezza personale, possa decidere liberamente ed assumersi la responsabilità delle sue azioni quotidiane” (p. 25)
Il modello di Rogers si identifica con la filosofia di Socrate, dell’austriaco Buber e del cinese Lao Tze; in tale prospettiva, lo psicologo mostra, con i propri colleghi e con i clienti, “un atteggiamento che Socrate chiamava “so di non sapere’’. In altre parole lo specialista si presenta in questo modo: conosco ma sono aperto a nuove conoscenze perché non sono detentore della verità” (p. 26).
Ecco dunque una prima manifestazione di esemplare onestà e umiltà: in questa epoca di presunti detentori della verità assoluta o rivelata, è salutare questo bagno di modestia, questa disponibilità ad ammettere la necessità di apprendere sempre, senza arrogarsi un’onniscienza impossibile.
Questa prospettiva emerge nel cap. III. Qui, sulla scia dello statunitense Rollo May (1909-1994), padre della psicologia esistenziale americana, l’autore sottolinea come la parola “esistenza” derivi dal latino “ex-sistere”: “Ex-sistere vuol dire uscire dal sé e confrontarsi con sé stesso” (p. 47). Dunque “è importante che il terapeuta aiuti il cliente a conoscere meglio sé stesso, perché possa trovare il coraggio e la libertà di decidere ciò che vuole essere e vuole fare, dando valore e significato alla propria esistenza” (p. 54). Seguendo May, l’autore ci ricorda l’insicurezza del nostro tempo, che induce spesso un senso di solitudine, di vuoto, di angoscia, di assenza di ogni certezza; tutto ciò è determinato “dal rapido cambiamento della società in cui viviamo” (p. 55). Tuttavia, anche se “il terapeuta non ha la bacchetta magica” (id.), può apprendere dai suoi pazienti (opportuna la citazione dello psicologo austriaco Alfred Adler: “gli scolari insegnano agli insegnanti”), imparando a confrontarsi meglio con i problemi attuali.
Nel mondo di oggi predomina il tema della solitudine, cioè la sensazione di sentirsi “al di fuori”, isolati o alienati: “Il senso di solitudine compare quando ci si sente vuoti e si ha paura. Si cerca, di conseguenza, protezione nella folla, sperando di colmare quella paura o quel vuoto, quel nulla che c’è dentro di noi. Ci comportiamo come quell’animale che cerca il suo branco. […] È importante che ogni individuo goda dell’approvazione degli altri, ma se diventa una dipendenza si finisce con il pensare che senza di essa si potrebbe perdere il senso della propria vita” (pp. 57-58).
A rivalutare un sano rapporto con se stessi contribuisce la scrittrice statunitense Eda Leshan (1922-2002): “quando non riusciamo a sopportare di essere soli vuol dire che non apprezziamo correttamente l’unico compagno che abbiamo dalla nascita alla morte, ovvero noi stessi” (pp. 57-58).
A questo proposito, a me viene in mente Leonardo da Vinci: «se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno, sarai mezzo tuo. […]. E se sarai con più, cadrai di più in simile inconveniente»; un altro suo appunto recita: «salvatico è quel che si salva».
Leonardo però, da bravo genio, era condannato all’isolamento; l’autore invece non vuole invitare alla solitudine asociale, ma esorta a sfuggire al meccanismo spietato del conformismo: “Nel nostro momento storico, in cui il conformismo è un grande distruttore della individualità e dove l’adattamento al modello tende ad essere accettato come normale, è facile rimanere prigionieri. Se un essere umano non sviluppa le proprie potenzialità, egli diviene proporzionalmente represso ed infermo. L’essenza della nevrosi è rappresentata dalle potenzialità non utilizzate, bloccate dalle condizioni ostili dell’ambiente e dai propri conflitti interiorizzati. Poter esprimere la propria identità sicuramente provoca emozioni positive. È importante, inoltre, non avere una opinione molto alta di sé, ma una coraggiosa umiltà, che è segno di una persona realista e matura”. (p. 60)
L’analisi del periodo adolescenziale rientra in questa prospettiva, come si legge nel cap. V della Parte I. In questo periodo cruciale dell’esistenza umana, “i giovani non riescono a mantenere delle relazioni durature, poiché appaiono sovente volubili, instabili e talvolta opportunisti” (p. 67). L’autore fa riferimento alla sua esperienza personale: “Come figlio, padre e per il mio trascorso lavorativo ho sperimentato che l’autorevolezza dà nel tempo i suoi frutti, rispetto all’atteggiamento passivo o autoritario. Credo sia necessario portare all’attenzione un altro elemento, ossia: “dare il giusto esempio”. È un atteggiamento poco usato da diversi adulti, nondimeno rimane uno strumento ancora efficace e utile in ogni contesto, per contribuire a formare la giovane società che, attraverso il senso di responsabilità, possa sostituire quella adulta” (p. 71).
Molto interessanti e pertinenti sono le pagine in cui viene esaminato il disagio giovanile: “Gli adolescenti per costruire la propria identità e l’autonomia hanno necessità di confrontarsi con i valori umani autentici, che rappresentano delle vere “bussole” interiori. […] Come si può pretendere dai figli atteggiamenti di solidarietà, quando gli esempi comportamentali forniti quotidianamente sono di egoismo, sopraffazione e violenza? […] I giovani, soprattutto in età adolescenziale, richiedono semplicemente ‘esempi di vita’ ed espressioni di vera coerenza tra idee, ideali e valori praticati che sono portati naturalmente ad imitare ed interiorizzare. Ciò presuppone da parte dei genitori, degli educatori e degli adulti in genere, una maggiore attenzione e di aver raggiunto questa coerenza interiore e questa matura consapevolezza” (pp. 75-76).
Queste premesse inducono a una severa autocritica: “Quanti di noi possono affermare, con sincerità, di averla raggiunta? Quanti genitori forniscono validi modelli comportamentali ai propri figli? Quanti atteggiamenti, spesso diseducativi, vengono trasmessi dai mezzi di comunicazione di massa? Da quanto detto si potrebbe desumere che il valore di vita da “coltivare” sia la corrispondenza tra ideali proclamati e la vita quotidiana” (p. 76).
Apro una parentesi. In particolare, il venire meno della figura paterna è una delle caratteristiche della società contemporanea. Ciò che colpisce è che questa assenza abbia lasciato spazio non a una figura sostitutiva bensì ad un vuoto, fisico ma soprattutto simbolico: “l’evaporazione del padre”, come la definì il filosofo francese Jacques Lacan (1901-1981), riguarda infatti il venire meno della funzione educativa del padre. Inoltre, il conflitto generazionale e l’emancipazione precoce dei figli hanno subìto negli ultimi decenni un’accelerazione tale da mettere in crisi la figura paterna, per cui spesso i padri sono assenti o, peggio, si ritrovano ad essere più bambini dei propri figli.
Come ha scritto lo psicanalista varesino Luigi Zoja, “se i padri sono assenti si diventa consapevoli della loro importanza”. Zoja parla di “rarefazione del padre”: quello che sembra venire a mancare è un principio verticale, capace di costituire un modello per la crescita, a vantaggio di un principio orizzontale incapace però di innescare processi fondati sulla responsabilità. L’effetto è quello di retrocedere sempre più verso l’irresponsabilità. Viene a mancare il conflitto padre-figlio, a favore di “una marmellata new age dove tutto può essere contemporaneamente vero e falso”. Senza conflitto non può esserci crescita; viene a mancare il punto di riferimento nel processo di individuazione dell’adolescente.

Sulla scia di queste riflessioni, nella Parte II (cap. III) il libro affronta il tema dell’autostima personale. In particolare, “l’autostima è come la temperatura, può crescere o decrescere, dipende dalla vera conoscenza e del valore che ciascuno attribuisce al proprio sé” (p. 107). Ne conseguono i problemi derivanti da una “temperatura” troppo alta o troppo bassa: “Provare una elevata fiducia può significare che siamo legati eccessivamente alle nostre capacità o che non abbiamo saputo dargli il giusto valore, che abbiamo perso in parte il contatto con tutto il resto del sé, che è fatto anche di debolezze e limiti. Contrariamente avere una bassa fiducia vuol dire che siamo rimasti prigionieri delle nostre fragilità e non riusciamo a fare leva sulle nostre risorse personali” (p. 107).
Da qui un nuovo riferimento al concetto di umiltà: “Fiduciosi delle proprie possibilità si è pronti a fare i fatti senza vanteria e clamore. Coraggiosi delle proprie imperfezioni si è disponibili ad accettare ciò che non si può cambiare all’interno del proprio sé, ma motivati sempre a conoscere di più e a migliorarsi. Questa è l’umiltà e la descrive bene Rollo May quando la considera un valore dell’essere umano che tutti dovrebbero possedere. Essa è un antidoto contro il vizio dell’apparire e contro la falsità che si ha verso sé stessi e verso gli altri” (pp. 110-111).
Diventa quindi importante il riferimento al termine “autenticità”. In greco il termine αὐθεντικός significa varie cose: “autoritario; indipendente; autorevole, originale, autentico; fondamentale”. Non è sicura l’etimologia dal pronome αὐτός (la consonante θ è differente), anzi qualcuno collega αὐθέντης al verbo ἀνύω “compiere, realizzare, portare a termine”; non c’è comunque dubbio che αὐθεντικός indica al tempo stesso autorità e autorevolezza; e il latino tardo authenticus allude proprio all’“avere autorità”, anzitutto su sé stessi. Dunque, l’autenticità “rappresenta la nostra vera interiorità, al di là di quello che vogliamo apparire o crediamo di essere. […] Autenticità come ‘esserci’”, non come presenza passiva, ma partecipazione alla vita e in armonia con il mondo, dove accanto all’Io esiste anche il Noi” (p. 129).
In definitiva, “l’atteggiamento autentico appartiene all’individuo che riesce a salvaguardare e promuovere la propria identità e, allo stesso tempo, mostra garbo e gentilezza con il resto del mondo” (p. 131). Evidentemente non è cosa facile raggiungere e conservare questa “autenticità”; altrettanto palese è che “coloro che rincorrono il denaro, il successo e il potere faranno molta fatica a camminare su questa strada” (p. 132); come dice un proverbio arabo, “onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero”. (pp. 131-132).
Sempre in questo corposo cap. III della Parte II, una sezione particolarmente attuale è quella dedicata al concetto di “empatia”. Il termine viene subito chiarito: “L’empatia è la traduzione della parola ‘Einfühlung’ utilizzata dalla psicologia tedesca. che letteralmente significa ‘sentire dentro’ e deriva dal greco pathos, che indica un sentimento forte simile alla sofferenza. Per la psicologia umanistica è la caratteristica che aiuta a mettersi nei panni dell’altro, intuire il suo stato d’animo, guidarlo per uscire dal problema” (p. 137). Conseguentemente, “l’empatia è la chiave del counseling”, dato che “apre la ‘porta’ per produrre cambiamento ed adattamento attivo, qualora c’è disponibilità anche di chi viene a chiedere aiuto” (p. 138).
Viene qui sottolineata l’importanza di un rapporto di fiducia tra terapeuta/counselor e cliente; da questo deriva un’unità di intenti, un’alleanza per raggiungere gli stessi obiettivi. L’autore ricorda di aver sentito dire a Paolo Monformoso (formatore e docente in counseling), che “vi sono tre verbi che coniugano il counseling e, precisamente: 1) educĕre: sono convinto che tu abbia della potenzialità, ti aiuterò a tirarle fuori; 2) adducĕre: ti aiuterò a trova un motivo o un senso per organizzare la tua vita; 3) conducĕre: non ti preoccupare non ti mollo, cammineremo insieme per raggiungere il tuo obiettivo” (p. 138).
Coerentemente con questo discorso, il cap. IV della Parte II, dedicato a “Saper essere – abilità personali”, chiarisce l’importanza dell’ascolto. Viene subito precisato che esistono modalità di ascolto assai diverse: “L’ascolto passivo può essere accondiscendente e con tempi prolungati. Chi ascolta può mostrare un apparente interesse per l’interlocutore come dire: “esisti solo tu”, perché si ha una bassa autostima, oppure perché si vuole mostrare compiacenza per qualche scopo preciso. L’ascolto selettivo può attribuirsi a chi ha fretta di acquisire delle informazioni utili o a chi ha poco interesse per l’altro. L’ascolto aggressivo appartiene al ‘tuttologo’ e all’arrogante. È tipico di chi manifesta forme di impazienza, è abituato ad interrompere e criticare per far valere la sua verità. La maniera più sana di ascoltare è quella attiva, che non è un nostro bisogno, ma quella di donare all’altro la nostra disponibilità e la nostra attenzione, mostrando rispetto. Tutto ciò aiuta a trovare una verità condivisa per provare a costruire una relazione autentica. L’ascolto attivo rispecchia la tradizione socratica e risponde a quella breve frase del filosofo: ‘so di non sapere’, che è sinonimo di umiltà, apertura, attenzione e riguardo per le asserzioni altrui, anche se in alcuni casi non si condividono” (pp. 142-143)
Nel cap. VI della Parte II viene affrontato il tema della resilienza: “Gli esperti definiscono la capacità di affrontare le avversità con la parola resilienza. Sull’argomento vanno sottolineate le ricerche americane e quelle europee, in particolare quelle francesi. La resilienza è per l’appunto la capacità di resistere alle difficoltà e di uscirne rinforzati, di mostrare flessibilità ed adattamento creativo, di elaborare strategie per affrontare nuove esperienze e motivarsi per prossimi obiettivi” (p. 168).
Molti di noi hanno scoperto questo vocabolo durante la pandemia; e lo slogan “andrà tutto bene” (purtroppo rivelatosi illusorio per le troppe vittime del Covid 19) era basato su questa disponibilità a resistere e lottare. Alla resilienza si oppongono alcuni fattori di rischio individuali: “scarsa consapevolezza del sé; bassa autostima; scarso attaccamento alle figure parentali; carenza di intelligenza emotiva e sociale; uso di sostanze” (p. 170); a suo favore vanno invece “la buona conoscenza e una adeguata fiducia del sé e le life skills” (id.).
In particolare, è la famiglia ad esercitare una forte azione di protezione; viene discusso però anche il ruolo della scuola: “La scuola, che ha un ruolo fondamentale insieme alla famiglia, può essere un elemento di protezione se stimola la partecipazione ed il coinvolgimento alle attività, se agevola la stima tra insegnanti e alunni e se garantisce adeguate aspettative. Diversamente diventa un fattore di rischio quando vi sono classi numerose, poca attenzione da parte degli insegnanti ed azioni di bullismo” (p. 170).

A questo proposito, l’autore sottolinea una carenza della scuola odierna: “La scuola, ancora oggi, si preoccupa soprattutto della intelligenza logica-matematica e di quella linguistica, trascurando quella emotiva e sociale, di grande valore per la qualità della vita di ogni comunità. Certo non possiamo addossare la colpa al “corpo insegnante”, poiché ha bisogno di direttive precise e di sostegno per operare nella direzione auspicata dagli psicologi sopracitati. […] Oggi manca in parte anche la condivisione e la collaborazione insegnanti-genitori, fondamentali per la crescita e la formazione dei giovani” (p. 204).
Ma se la scuola ha i suoi problemi, molti derivano dalla crisi delle famiglie: “Tante famiglie vivono una profonda crisi per diversi motivi: separazioni, problemi economici, incoscienza, irresponsabilità, egoismo, sete di successo e di potere. Taluni giovani sono lasciati allo sbaraglio dai propri genitori, che tendono a giustificare la loro assenza barattando l’affetto e le regole non date con regali e denaro. Un altro aspetto che riscontriamo nei vari contesti è quello di ‘non dare l’esempio’. Questo comportamento è in crescita e taluni adulti lo manifestano attraverso la carenza di ascolto, nell’essere anche poco responsabili, inaffidabili e con scarso senso della comunità. I giovani non hanno più modelli a cui ispirarsi, sia in alcune famiglie, sia in tanti contesti sociali. Molti mezzi di comunicazione fanno a gara per alimentare questo disorientamento giovanile. Utilizzano, infatti, messaggi subliminali e modelli di comportamento che spingono alla volgarità, alla disonestà, al consumismo sfrenato per apparire, al profitto, al potere ed al successo in assenza di talento e sacrifici” (pp. 204-205)
Di fronte a tali e tanti problemi, l’autore sottolinea l’importanza del “mettersi in gioco”: “È necessario ‘sporcarsi’, vivendo la quotidianità tenendo presente la nostra identità, il nostro valore e, nello stesso tempo, provare rispetto per gli altri ed essere utili alla società. Questo esercizio mentale e comportamentale non fa vivere nell’egoismo, nella solitudine e aiuta a leggere con più attenzione dentro e fuori di noi stessi. Una migliore lettura del sé e del mondo sprona a utilizzare con più efficacia le risorse personali, a individuare le debolezze e migliorarsi. Stimola, oltre a ciò, ad osservare le differenze tra il sé e gli altri, quindi a costruire una relazione sana e di mutuo soccorso” (p. 180).
Le Conclusioni del libro (pp. 207-212) presentano ulteriori riflessioni: l’autore ricorda la sua lettura di saggi di Luigina Mortari (Professore ordinario di pedagogia generale e sociale), relativamente a due argomenti: 1. avere cura di sé – 2. benessere e qualità della vita.
Per quanto riguarda l’“avere cura di sé”, l’“arte di esistere” deve essere indotta dalla pratica educativa; in particolare, «una categoria di persone che, mai come ora, hanno bisogno di cura sono i giovani. A loro non interessa la manipolazione di qualcuno che gli dica cosa fare, come fare e quando farlo, ma un’attenzione particolare che possa garantire loro la libertà di scegliere il bene per la propria vita» (p. 208). La Mortari sottolinea “l’importanza delle relazioni sane, che danno sapore all’esistenza e producono benessere. […] Una relazione può considerarsi sana quando è produttiva, poiché si utilizza uno stile assertivo che porta al saper fare, quindi a migliorare la qualità della vita personale e sociale” (p. 210).
Nelle due pagine conclusive il col. Tagliareni ribadisce (con il coraggio della sua umiltà): “in ciò che ho scritto non c’è nessuna pretesa di insegnare o suggerire. […] Il mio auspicio è quello (spero di esserci riuscito), come nella tradizione socratica, nel dubbio cartesiano e nella filosofia della psicologia umanistica, di destare nel lettore una analisi più attenta e meditata su sé stesso e sulla società con le sue dinamiche” (p. 211).
Possiamo dire senz’altro che il suo intento è perfettamente riuscito; e gli auguri conclusivi, tratti da un testo di Thomas Merton (1915-1968), scrittore e monaco cristiano statunitense dell’ordine dei Trappisti, possono costituire un augurio ancora valido per tutti noi: “non ti auguro di essere felice… sarebbe troppo facile, ma ti auguro di trovare la felicità nelle piccole cose che ti circondano. Non ti auguro il meglio… sarebbe relativo, ma ti auguro di saper trarre il meglio di ogni situazione in cui ti troverai. Non ti auguro di non aver paura… sarebbe troppo difficile, ma ti auguro di trovare sempre il coraggio di andare avanti e vivere fino in fondo la tua vita. Non ti auguro di non sbagliare mai… sarebbe impossibile, ma ti auguro di avere sempre una possibilità di rimediare ai tuoi errori. Non ti auguro di fare sempre la cosa giusta… sarebbe troppo bello, ma ti auguro di sapere imparare dai tuoi sbagli. Non ti auguro di non aver mai bisogno di nessuno… sarebbe troppo presuntuoso, ma ti auguro di essere abbastanza umile, di saper tendere la mano per farti aiutare quando ne avrai bisogno. Non ti auguro di avere tanti amici… sarebbe irreale, ma ti auguro di saper essere un amico per tante persone. Non ti auguro di esser saggio… sarebbe troppo pretenzioso, ma ti auguro di saper distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male e saper scegliere la via giusta da seguire. Il mondo è pieno di meraviglie da scoprire, non fare trascorrere un solo giorno senza esserti stupito” (pp. 211-212).
Come spero si sia compreso da queste note essenziali, il volume nelle sue 212 pagine di testo è ricco di suggestioni, di inviti alla riflessione, di considerazioni accompagnate da un’enorme mole di citazioni, forse non sempre filologicamente ineccepibili ma sempre appropriate e stimolanti. Si può quindi concludere che questo testo del col. Tagliareni possa costituire una lettura attuale e gradevole soprattutto in un’epoca che mette a dura prova molti dei valori che qui sono descritti e ribaditi con forza.
Un’ultima nota: le belle illustrazioni che ho qui riportato, tratte dal libro, sono opera della sig. Giuseppa Matraxia, moglie dell’autore, che è una pittrice di grande sensibilità e bravura; anche la copertina riproduce un suo quadro, “Scogli di Sicilia” (2014).
MARIO PINTACUDA
Palermo, 21 giugno 2025
