1965: quando Gimondi vinse il Tour de France

Sessant’anni fa, mercoledì 30 giugno 1965, a quest’ora sprizzavo gioia da tutti i pori. Avevo undici anni ed ero appassionato di ciclismo.

Quel giorno, alla radio, avevo appena appreso che Felice Gimondi, non ancora ventitreenne, aveva riconquistato la maglia gialla al termine della nona tappa (Dax – Bagnères de Bigorre, km. 226); la tappa era stata vinta dallo scalatore spagnolo Julio Jimenez e Gimondi si era ripreso il simbolo del primato.

Il percorso del Tour de France 1965

Felice Gimondi, originario di Sedrina in provincia di Bergamo, ragazzo serio, leale, onesto, di pochi e granitici valori, aveva vinto l’anno prima il Tour de l’Avenir, la corsa a tappe riservata agli under 23, che si svolgeva in Francia nel mese di settembre.

Al Tour del 1965 non sarebbe nemmeno dovuto andare: partecipò alla corsa in sostituzione di Battista Babini, come gregario del capitano della sua squadra, la Salvarani di Vittorio Adorni, il signorile ciclista parmense che quell’anno aveva vinto il Giro d’Italia. Eppure già nella seconda tappa, a Roubaix, Gimondi arrivò secondo; e nella terza, con arrivo a Reims, si affermò conquistando la maglia gialla di leader della classifica generale.

Dopo cinque tappe in maglia gialla, però, perse il primato che andò al belga Bernard Van De Kerckhove: Gimondi era ora quarto, a 2’05’’; alle sue spalle, essendo assente il vincitore del Tour precedente, il grande Jacques Anquetil, incombevano il suo capitano Adorni e il corridore più amato dai Francesi, Raymond Poulidor detto “Pou-Pou”.

Ma il 30 giugno a Bagnères de Bigorre, mentre Adorni era costretto al ritiro per problemi fisici, Gimondi tornò in maglia gialla. Non la perse più: mantenne il primato fino a Parigi, affermandosi in altre due tappe (entrambe a cronometro individuale).

Era dal 1960 che un italiano non vinceva il Tour (l’ultimo era stato Gastone Nencini); e il successo del giovane campione bergamasco entusiasmò i tifosi italiani, che da anni aspettavano quello che allora fu definito “erede di Coppi” (va detto che allora il ciclismo era il secondo sport più popolare in Italia dopo il calcio).

L’impresa di Gimondi al Tour fu ottimamente raccontata in un articolo di Giovanni Mosca (che leggo sulla rivista “Reportages ‘65”, dono della “Domenica del Corriere” ai suoi abbonati); ne ripropongo alcuni stralci, non esenti da alcune intuizioni quasi “profetiche”: «Da qualche anno l’interesse per il ciclismo languiva, e in modo tale, che da più parti ci si domandava se esso non fosse per caso uno sport destinato a morire rapidamente, anacronistico com’era, un intruso nel secolo dell’automobile, per non parlare delle passeggiate nel cosmo. Che sia anacronistico è fuori di dubbio, e che stoni, anche, con la generale tendenza ad evitare la fatica, ma forse è appunto per ciò, è appunto per reazione che la bicicletta non verrà mai abbandonata, e che questa macchina che moltiplica le energie dell’uomo, obbligandolo, però, a spenderle, sarà nell’avvenire sempre più adoperata come necessario esercizio fisico. In più la bicicletta, in un Paese come l’Italia dove la povertà non è ancora un lontano ricordo, e in molte regioni neppure, ancora, un ricordo, è il mezzo meccanico che il popolo ancora più adopera, strumento di lavoro, di fatica, di pena, i garzoni, ì fattorini, i portalettere, e tutti coloro che lavorano lontano di casa, e spesso fra casa e la-voro c’è una montagna. Ecco di dove vengono i campioni del ciclismo. […] Perché improvvisamente, nel giro di tre settimane, Felice Gimondi s’è guadagnato non solo la considerazione ma la simpatia e l’affetto degli sportivi ravvivando in essi gli antichi entusiasmi per il ciclismo, tali da rendere non del tutto inattendibile la leggenda secondo la quale Bartali, nel 1948, vincendo il Tour de France, salvò l’Italia dalla rivoluzione? Perché Gimondi è il nuovo grande campione che tutti aspettavano senza riuscire ad immaginare come sarebbe stato. Ora ch’è arrivato, vediamo che è proprio quale lo desideravamo, non c’è nulla in lui di diverso da quel che le nostre speranze si figuravano. Non è vero forse che da anni gli sportivi attendevano la fine della mediocrità che stava uccidendo il ciclismo, tutti a quarantacinque all’ora e sempre insieme, nessuno che si distinguesse, nessuno che si levasse in un volo, nessuno che prepotentemente imponesse la propria superiorità, nessuno che tanto in pianura, quanto in salita, quanto nelle prove a cronometro, potesse, nei momenti di grazia, fare, senza sforzo, anzi, con eleganza, per un misterioso privilegio misteriosamente concessogli, quel che gli altri non riescono a fare se non a prezzo di litri di sudore e di sgradevoli contorcimenti? Ed ecco che questo “ingiusto” privilegio è stato concesso a lui perché lui possiede l’arte di farsi perdonare, così che, anziché umiliante, riesce non dico piacevole essere da lui sconfitti, ma accettabile con serena rassegnazione. Come avvenne giorni fa a Poulidor, quando avendo fieramente attaccato con la precisa intenzione di fiaccare, finalmente, su una dura salita a lui ben nota, il campioncino di ventidue anni venuto in Francia a rubargli le simpatie dei francesi, un paio di minuti dopo se lo vide arrivare al fianco pedalando come se invece che in salita, e sotto il sole, pedalasse lungo la più ombrosa delle pianure, e sorridente senza iattanza, e ironico dell’ironia degli Dei, i quali si divertivano a mutare in aereo gioco quel che per gli uomini era dura fatica, e non già per avvilirli, ma per mostrar loro il loro modello ideale, come dovresti essere e non sei. Come dovresti salire, Poulidor, e non sali. Cosa volevate che facesse Poulidor? Accettò la lezione e sorrise anche lui»

L’articolo di Mosca riservava anche un elogio a Gianni Motta, “l’altro prodigioso ventiduenne” italiano che aveva concluso il Tour al terzo posto: «Verrà forse presto anche per lui il momento d’esser baciato dalla grazia, e di potersi levare di fronte a Gimondi, sullo stesso piano, e sfidarlo. Per ora lassù è salito solo Gimondi, proprio quale la gente che lo attendeva se lo immaginava. Non somiglia né a Coppi, né a Bartali, nè a Binda, né ad altri. È soltanto Gimondi e altro non potrebbe essere. Perfetto. E intorno a lui ha preso a ruotare la nuova epoca d’oro del ciclismo».

Nella sua splendida carriera Felice Gimondi (1942-2019) riportò altri grandissimi successi: vinse tre volte il Giro d’Italia (nel 1967, 1969 e 1976), una volta la Vuelta di Spagna (nel 1968), un campionato del mondo su strada (nel 1973) e molte classiche (fra cui una Parigi-Roubaix, una Milano-Sanremo e due Giri di Lombardia). Se non poté davvero essere l’erede di Coppi, la “colpa” fu del “cannibale” Eddy Merckx, l’immenso campionissimo belga che dal 1968 monopolizzò le corse ciclistiche affermandosi praticamente sempre e ovunque.

Io quel Tour del 1965, come ho detto all’inizio, lo seguivo alla radio: ogni giorno, “tra le ore 16,15 e le ore 17,30” il secondo programma radiofonico trasmetteva la radiocronaca dell’arrivo delle tappe; radiocronisti erano Enrico Ameri e Adone Carapezzi.

Dopo il 30 giugno, continuai a seguire ogni pomeriggio le radiocronache, esaltandomi per le vittorie del nostro giovanissimo campione; avevo fatto un mio “calendario personale” del Tour (ne allego le foto), segnando ogni giorno i vincitori di tappa e la maglia gialla e ritagliando alcuni ordini d’arrivo.

Il momento di maggiore tensione fu il 6 luglio, allorché Poulidor vinse sul Mont Ventoux, riprendendo a Gimondi 1’38’’ e incalzandolo ormai a soli 34’’ in classifica.

Dal 7 luglio, però, seguire il Tour diventò per me quasi impossibile: mentre mio padre restava a Genova al lavoro (era allora direttore “ad interim” del conservatorio “Paganini”), io e mia madre partimmo col Treno del Sole e iniziammo le vacanze a Bagheria.

Dopo pochi giorni ci trasferimmo in una casetta di campagna di un mio zio, vicino all’Hotel Zagarella, fra Santa Flavia e Casteldaccia, immersa fra i limoni.

L’unica radiolina a transistor di cui disponevo spesso gracidava suoni incomprensibili e le notizie sul Tour mi arrivavano sempre più frammentarie e lacunose. Non c’erano allora internet, social, intelligenze più o meno artificiali, news (neanche fake): e spesso la sera mi chiedevo chi avesse vinto la tappa, se Gimondi fosse ancora maglia gialla e se il grande sogno si sarebbe avverato.

Per fortuna, il sogno si avverò: la classifica finale del Tour fu: 1° Felice Gimondi (Ita) 116h42’06”, 2° Raymond Poulidor (Fra) a 2’40”, 3° Gianni Motta (Ita) a 9’18”, 4° Henry Anglade (Fra) a 12’43”, 5° Jean-Claude Lebaube (Fra) a 12’56”.

E quando in campagna salivo e scendevo per lo “sciddicaloro” della casetta in bicicletta, mi sentivo un emulo di Gimondi e alzavo le braccia in segno di vittoria (a rischio di “sdirrubbarmi” per terra…).

Da allora fui uno dei più fedeli tifosi del campione bergamasco: avevo persino imparato a imitarne perfettamente la voce e realizzavo dei fasulli servizi sportivi che strappavano risate ai miei parenti.

E quando nel 2019 ho appreso la triste notizia della sua scomparsa, ne ho sofferto come se avessi perso una persona cara: ma forse al ricordo di lui si intrecciava il ricordo di quell’antica estate in campagna, in cerca di un improbabile contatto radiofonico con il mondo esterno, fra i sogni più belli della preadolescenza.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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