I “bravi” manzoniani e i “malacarne” palermitani

Le analogie fra i “bravi” manzoniani e i “malacarne” palermitani del XXI secolo sono notevoli e innegabili.

La prima caratteristica comune è il look, nel quale gli elementi fisici (la capigliatura e la barba) si uniscono a un abbigliamento caratteristico, riprodotto “in serie”, con larga ostentazione di un arsenale di minacciose armi: «Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni, uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti».

La seconda analogia è data dall’assoluta incapacità, da parte delle autorità costituite, di estirpare questa minacciosa categoria: lo dimostra l’elencazione delle inutilissime “gride”, cioè le leggi di allora, “urlate” per le strade per pubblico avviso alla popolazione analfabeta (analfabeta allora come oggi…).

Queste temibili “gride” sono puntualmente citate da Manzoni, che così le commenta: «Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna. […]. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere».

Dunque, di fronte all’organizzazione capillare dell’impunità, nemmeno “le pene pazzamente esorbitanti” costituivano un deterrente per i malfattori (figuriamoci oggi, in cui le pene non sono certo esorbitanti e la “certezza della pena” è quanto di meno certo esista nel nostro Paese).

Ma non è tutto. Infatti le terribili leggi previste dalle “gride” avevano semmai l’effetto di aumentare l’arroganza dei delinquenti: «all’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire». Dunque, alla forza promessa e mai attuata della Legge, si opponeva la “forza reale” dei criminali, la loro tranquillità di fronte a minacce inattuate e inattuabili.

Inoltre, coloro che erano chiamati a far rispettare le leggi, cioè il corrispettivo delle attuali forze dell’ordine, si trovavano in un paralizzante vicolo cieco: «Gli uomini poi incaricati dell’esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com’eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare». Considerazioni senz’altro condivisibili anche oggi, allorché il promesso potenziamento delle forze dell’ordine a Palermo dopo l’ultimo esecrabile omicidio consiste nell’imminente arrivo di… 24 agenti di polizia (per di più destinati ovviamente a turni di lavoro che ne impediranno l’utilizzazione massiccia).

C’è ancora un dettaglio che merita di essere citato. Durante il minaccioso dialogo fra i due “bravi” di Don Rodrigo e Don Abbondio, il pavido curato a un certo punto chiede: «Se mi sapessero suggerire…»; l’intimidito chiede consiglio agli intimidatori, la vittima domanda cosa fare ai suoi aguzzini. La risposta di uno dei due briganti è ironica: «Oh! suggerire a lei che sa di latino!».

In questa frase sta tutta l’arroganza dell’ignorante di fronte alla sterile cultura della controparte. Il “latino” è emblema di una cultura lontana dalla vita reale, arroccata nel suo iperuranio incomprensibile e inaccessibile e totalmente inefficace di fronte alle ingiustizie e ai soprusi.

Il fatto è che “chi sa di latino” (ammesso che ancora ci sia qualcuno che ne sappia qualcosa) non trae nessun vantaggio reale da questa sua sterile competenza. Fuor di metafora, chi possiede (a differenza dei suoi antagonisti) l’arma della cultura (che vorrebbe dire anche competenza, astuzia, esperienza, capacità di prevedere le mosse altrui), non può, non sa o non vuole mettere in campo opportunamente queste risorse, favorendo così il successo incontrastato del Male (inutile chiamarlo diversamente).

Ne è un esempio il maxiblitz fatto l’altra mattina allo Zen dalle forze dell’ordine. Come si leggeva su Palermo Today, «Polizia, carabinieri e guardia di finanza hanno passato al setaccio il quartiere, impiegando circa 300 uomini. Controlli in strade, perquisizioni in case e magazzini: elevate multe per decine di migliaia di euro e recuperati anche alcuni mezzi rubati, individuati diversi alloggi occupati abusivamente. […] Nello specifico, la polizia ha sequestrato 2 chilogrammi di materiale esplodente di natura pirotecnica a carico di ignoti, 40 grammi di hashish e 20 grammi di cocaina. Sono stati, inoltre, recuperati, nei box di via Girardengo, 3 motoveicoli risultati rubati e 2 coltelli a serramanico». Altre fonti confermano che molti dei “perquisiti” sogghignavano di fronte alle perquisizioni delle forze dell’ordine, ampiamente previste dopo l’ennesimo delitto e quindi preventivamente neutralizzate facendo sparire armi e droga prima dell’arrivo dei militari. Il sequestro dei coltelli a serramanico, in un quartiere dove pullulano i mitra, le bombe e le pistole, farebbe sorridere se non facesse avvilire.

Forse (per fare un’altra citazione letteraria) si dovrebbe fare come faceva Mazzarò nella novella “La roba” di Verga: «Egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe». L’illegalità va smascherata quando meno se l’aspetta, a tradimento, senza “mandarglielo a dire”, senza proclami a voce alta, ma con un’azione continua, efficace e mirata.

In caso contrario, l’esito sarà ancora una volta quello raccontato da Manzoni nel cap. 1 del suo romanzo, allorché viene riferita la constatazione del governatore spagnolo dello stato di Milano, che il 23 maggio 1598 era stato «informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che… ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro», per cui prescriveva «di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate».

In questi giorni è stata riaffermata, soprattutto dalle forze progressiste, la necessità di collegare ogni intervento “repressivo” a un progetto ampio di “riqualificazione” culturale, economica e sociale dei quartieri a rischio. Questa istanza sarebbe assolutamente ragionevole se poi producesse una reale, immediata e corale azione in questo senso; in caso contrario, si produce l’ennesima impressione di parole al vento, pronunciate quando i buoi sono già da tempo scappati dalla stalla.

In questo contesto desolante, si devono applaudire le persone oneste che vivono nel proibitivo contesto dei quartieri a rischio, quasi sempre dimenticati dalle istituzioni («La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui», scrive ancora Manzoni).

In questo mondo spietato, violento, crudele, disumano, privo di ogni rispetto per la persona umana, privo di ogni valore, privo di ogni deterrente reale, la prima cosa da fare sarebbe il ripristino immediato della credibilità dello Stato nell’applicazione immediata e concreta delle leggi già esistenti. E questo non solo dopo l’ennesimo delitto o in attesa del prossimo, ma sempre.

Si dovrebbe passare dalla fase dei “blitz” alla fase della presenza costante dello Stato, all’affermazione della legalità, oggi domani dopodomani, ogni giorno dell’anno, sempre, fino a che il concetto stesso di illegalità sia dimenticato. Questo però richiederebbe, da parte di tutte le diverse forze politiche, un progetto comune di risanamento del territorio. Purtroppo però, in un’epoca in cui ogni affermazione dell’avversario politico viene costantemente irrisa, derisa e contestata a scopi elettoralistici, è lecito nutrire qualche dubbio sull’attuabilità di un progetto comune.

E i “bravi” continueranno ad aspettarci al varco, pronti a minacciarci ancora e a sogghignare, contenti di vedere in noi l’ennesima reincarnazione di Don Abbondio.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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