L’anno che verrà

Nel febbraio del 1979 Lucio Dalla scrisse la canzone “L’anno che verrà”, dedicandola al suo amico Giuseppe Rossetti, un artista che era andato in prigione per motivi politici; con lui aveva passato la notte di Capodanno in prigione, per fargli compagnia. La canzone consiste in una lettera in cui l’autore descrive all’amico quello che è accaduto durante l’ultimo anno e quali sono le previsioni e le prospettive per l’anno futuro.

Secondo alcuni, il testo sarebbe stato rivisto da Dalla insieme a Michele Casali, un frate domenicano bolognese suo amico. Questo testo, altamente poetico, fa riferimento all’atmosfera difficile dell’Italia alla fine degli anni ’70 («Si esce poco la sera, compreso quando è festa / e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra»), ma nel complesso è praticamente “senza tempo”: questo lo rende sempre attuale e coinvolgente.

In queste ore di fine anno, che chiudono un anno denso di avvenimenti, sembra opportuno rileggere i versi di questa canzone profonda e a tratti struggente; nel citare i versi del testo li farò seguire, ogni volta, da qualche tentativo di riflessione.

«Caro amico, ti scrivo, così mi distraggo un po’ / e siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò».

L’autore scrive all’amico “per distrarsi”. A volte scrivere a qualcuno ci fa bene, ci chiarisce le idee, ci consente di condividere le nostre opinioni e le nostre speranze. Anni fa, quando si usava inviare lettere scritte a mano, avvertivamo fortemente la “lontananza” del destinatario; questo ci induceva a una maggiore partecipazione emotiva. Esistono, poi, delle lettere “ideali”, che possiamo scrivere a personaggi importanti o a persone che non ci sono più: qui, ancora di più, dobbiamo scrivere “più forte”.

Mio padre (che il 1° gennaio avrebbe compiuto 110 anni) diceva sempre che, dopo la morte, sarebbe bello se ognuno potesse mandare dalla sua nuova sede una breve lettera ai parenti che lo piangono, scrivendo ad esempio: “Arrivato. Qui tutto bene. Non vi preoccupate per me. Baci affettuosi”. Niente, invece. La comunicazione con i nostri cari che non ci sono più è tutta mentale, si incarna nei ricordi, che a volte si spengono e più spesso si ravvivano. Allora, se dobbiamo scrivere una lettera a cui teniamo particolarmente, dobbiamo scrivere “più forte”, con più passione, con il cuore in mano (“più forte ti scriverò”).

«Da quando sei partito c’è una grande novità. / L’anno vecchio è finito, ormai».

“Grande novità”, dice ironicamente. In realtà non è una novità che gli anni inizino, trascorrano e inesorabilmente finiscano; così anche questo “anno vecchio”, il 2025, si avvia alla conclusione, con gli inevitabili fuochi d’artificio che ne festeggiano la fine. È strano come l’unica morte che venga così festeggiata sia quella del nostro tempo che se ne va.

«Ma qualcosa ancora qui non va: / si esce poco la sera, compreso quando è festa / e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra / e si sta senza parlare per intere settimane / e a quelli che hanno niente da dire / del tempo ne rimane».

L’amico deve sapere che le cose non vanno, che si ha poca voglia di uscire. Pare quasi che Dalla avesse previsto l’epoca odierna, caratterizzata da difficoltà economiche (inutilmente negate da propagande rassicuranti) e da una violenza bestiale dilagante, che induce le persone oneste ad aver paura, a uscire “poco la sera”. In questo clima teso, i “sacchi di sabbia vicino alla finestra” sono emblema di una “resistenza” tenace contro le “alluvioni”, non solo quelle reali (dovute sempre più alla realtà climatica sconvolta), ma anche quelle metaforiche: alluvioni di guerre interminabili e ottuse, di carneficine spietate (ridotte a “notizia” televisiva da sbirciare alla TV davanti a un bel piatto di pasta asciutta), di sopraffazioni fanatiche, di violenze inaccettabili che colpiscono soprattutto le persone più deboli. Il risultato è che “si sta senza parlare per intere settimane”: ci si abitua a un silenzio timoroso, diffidente, rassegnato. Il tempo che rimane è, sempre più, appannaggio di “quelli che hanno niente da dire”: meno si ha da dire, più si riesce a durare.

«Ma la televisione ha detto che il nuovo anno / porterà una trasformazione; / e tutti quanti stiamo già aspettando».

Quante cose non dice “la televisione”! Ma oggi il termine andrebbe rinnovato: “i social hanno detto…”. Infatti è dai social che arrivano, oggi, i messaggini che inneggiano al nuovo anno; e tutti sperano effettivamente che ci sarà davvero una “trasformazione”. Il guaio è che non si sa se la trasformazione sarà davvero in meglio, o se il cambiamento invece consisterà in un ulteriore passo indietro nella reciproca solidarietà umana, nel desiderio di pace e giustizia, nell’uso del dono dell’intelletto.

Eppure le più clamorose speranze sembrano emergere trionfalmente nella canzone: «Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno. / Ogni Cristo scenderà dalla croce. / Anche gli uccelli faranno ritorno. / Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno. / Anche i muti potranno parlare / mentre i sordi già lo fanno. / E si farà l’amore, ognuno come gli va. / Anche i preti potranno sposarsi / (ma soltanto a una certa età). / E senza grandi disturbi qualcuno sparirà. / Saranno forse i troppo furbi / e i cretini di ogni età».

Che anno meraviglioso! Il Natale, il giorno più atteso dell’anno (bello più nell’attesa che nella sua effimera durata), verrà “tre volte”. Cristo non avrà più bisogno di immolarsi per noi sulla croce; anche noi ci libereremo delle nostre croci. Nessuno dovrà preoccuparsi di cosa mangiare e ci sarà “luce tutto l’anno”: la luce del Bene arriverà, finalmente, a dissipare tutto il Male del mondo. Ma sì! Avverranno miracoli, finalmente non confinati al racconto dei Vangeli: muti e sordi guariranno; il soprannaturale schiaccerà il naturale, l’impossibile sarà possibile. In questo clima di liberazione generale, “si farà l’amore” senza pregiudizi e discriminazioni; anche i preti potranno sposarsi (chissà che il nuovo papa non trovi fra i suoi inseparabili foglietti uno che annunzi il matrimonio dei sacerdoti, mai proibito dalla predicazione di Gesù). Inoltre “senza grandi disturbi qualcuno sparirà”: a sparire saranno (“forse”) le due categorie più deleterie, “i troppo furbi e i cretini di ogni età” (per fortuna non occorre invecchiare per essere cretini).

«Vedi, caro amico, cosa ti scrivo e ti dico / e come sono contento / di essere qui in questo momento. / Vedi, vedi, vedi, vedi / vedi caro amico cosa si deve inventare / per poter riderci sopra, / per continuare a sperare».

Il sogno è finito. Il ricordo inopportuno della triste realtà ha spazzato via i sogni miracolistici precedenti: Natale verrà quella sola e unica volta, Cristo morirà ancora invano sulla croce, mancherà il cibo, il buio oscurerà le nostre città e i nostri cuori, l’amore resterà per molti un sogno proibito, i preti non si sposeranno e se vorranno concedersi divagazioni inopportune dovranno (dovrebbero) cambiare mestiere. D’altro canto, i “troppo furbi” dilagheranno e avranno campo libero: i furbi che non rispettano nessuna regola, che non pagano le tasse, che delinquono impunemente (alla faccia dei velleitari proclami di chi dovrebbe garantire la sicurezza), che fanno campagna elettorale h24 (anzi A365 come dico io, con riferimento a tutti i giorni dell’anno), che vanno dove li porta il vento, saltando sul carro dei vincitori di turno. Quanto ai “cretini”, continueranno a subire e tacere.

Però era stato bello inventare quella sequela di fandonie: serviva a “riderci sopra”, a “continuare a sperare”.

Non c’è mai speranza così folle da non poter essere sperata.

«E se quest’anno poi passasse in un istante, / vedi amico mio / come diventa importante / che in questo istante ci sia anch’io»

È vero. Anche questo 2025 è passato “in un istante”: soprattutto per chi ha la mia età, gli anni corrono (capodanno-carnevale-pasqua-ferragosto-natale). La ruota gira, gira troppo velocemente, “la bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna”.

Sembra ieri quando eravamo ragazzi e aspettavamo il 2000, svolta epocale straordinaria. Passavano i decenni del vecchio secolo e quella data lontana andava inesorabilmente avvicinandosi. Quante speranze, per i ragazzi di allora! “You say you want a revolution / Well, you know / We all want to change the world“. Beh, il nuovo millennio è arrivato; è arrivato da ben venticinque (!) anni; e non si può negare che il mondo sia davvero radicalmente cambiato. Però non è cambiato come speravamo noi: e i giovani di allora, i vecchi di oggi, sono sempre più pronti a scappare via senza rimpianti da questo pianeta irriconoscibile (“ce ne ricorderemo, di questo pianeta”).

Anche il prossimo anno, il 2026 (oggi si dice “venti-ventisei”, come comandano gli anglosassoni), fra un anno finirà, fra le stesse (o maggiori) manifestazioni di gioia per la sua fine. L’unica cosa importante, come dice Dalla, sarà esserci ancora («vedi amico mio / come diventa importante / che in questo istante ci sia anch’io»). Come diceva l’ergastolano Papillon (Steve Mc Queen) alla fine del bel film di Franklin J. Schaffner (1973), «Maledetti bastardi… sono ancora vivo!».

«L’anno che sta arrivando tra un anno passerà. / Io mi sto preparando, è questa la novità».

Gli anni passano uno dopo l’altro, avvicendandosi nei milioni di anni della storia del mondo e nei pochi decenni delle nostre vite; l’unica “novità”, per noi, è “essere preparati”.

A chi, come me, ha letto troppi testi, ne viene in mente uno in particolare, oggi. Sono parole di Seneca, dal suo “De brevitate vitae”: «Vivete come se foste destinati a vivere sempre; non vi viene mai in mente la vostra fragilità» (“tamquam semper victuri vivitis, numquam vobis fragilitas vestra succurrit”). Se le leggessero Putin, Trump, Netanyahu o altri “potenti” (ammesso che abbiano mai letto un libro) riderebbero del termine “fragilità”, senza rendersi davvero conto della realtà innegabile della loro condizione effimera (chi di loro sarà qui fra mezzo secolo?).

Tuttavia, per chi ne comprende la vera essenza, la nostra “fragilità” ha la forza irrinunciabile della speranza e la base granitica dell’intelligenza: per questo, anche se “l’anno che sta arrivando tra un anno passerà”, noi siamo preparati a viverlo come sempre, accettandone gioie e dolori con il sorriso tenace della nostra umanissima voglia di esserci ancora.

Buon 2026 a tutte e a tutti!

MARIO PINTACUDA

30 dicembre 2025

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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