Fra i consigli che Natalia Milazzo dà ai “continentali” che si apprestano ad un viaggio in Sicilia ne compaiono alcuni che chiariscono bene la concezione “gastronomica” dell’isola: «Digiunate per un paio di giorni. I siciliani tendono a preparare pasti imponenti e a rimanerci male se l’ospite non si serve due volte di tutto… La cucina siciliana tradizionale non è per nulla una cucina povera, ma al contrario molto ricca e ben presentata, come si addice all’imperativo categorico della regione: “fare bella figura”. Il siciliano… odia tutto ciò che potrebbe ingenerare un sospetto di povertà e considera la più tangibile prova dell’opulenza della famiglia un abbondante ragù, una generosa nevicata di formaggio, una ricca besciamella… La cucina tradizionale siciliana, insomma, si caratterizza per piatti fastosi e preparati con grande abbondanza di condimenti» (“Siciliani – Figli di un dio maggiore”, ed. Sonda, 1998, pp. 56 e 73-74).
La cottura della pastaè rito solenne e fondamentale: “Fra poco mangiamo: ho calato la pasta”.
L’attesa della cottura è talora spasmodica: “Quando se ne parla per mangiare? “ – “Ancora vogliono cuocere gli spaghetti?”
È grave smacco quando, dopo tanta attesa, il risultato delude, magari per l’eccesso di sale: “Non mi sono saputo calcolare: troppo sale ci ho messo!”
Il fatto è che la preparazione di certe portate è impegnativa, richiede sforzo e tempo: “A fare questa salsa è trafficoso”.
Vero è anche che, in certi casi, la scelta della maniera migliore di cucinare un cibo è quasi obbligata: “Questa carne la sua morte è arrostita”.
I bambini a tavola sono scheggia impazzita, elemento da irreggimentare e formare alla “cultura” del cibo; si prova frustrazione e angoscia, quindi, quando un bambino fa i capricci e non vuole mangiare, per cui occorre sorvegliarlo a vista: “Mio figlio per farlo mangiare ci debbo stare di sopra”.
A volte i piccoli sono famelici e divorano tutto voracemente, per cui rischiano che il cibo vada loro di traverso:“Ciccio mangia svelto e quando si affoga comincia a tossire”.
Per un bambino renitente alla chiamata del cibo si usa la stessa espressione che si utilizza per i malati: “Ma per mangiare mangia?”.
Molto meglio il bambino bulimico, che non pensa ad altro e quindi “ha la testa sempre a mangiare”…
Per ognuno, indubbiamente, esistono piatti preferiti e gusti personali:
- “A ora di gelato, tutti ci lasciamo andare” (è “l’orario” preferito…).
- “Per il dolce io non tanto ci tiro” (quindi “non lo gradisco più di tanto”…)
- “La torta troppo dolce mi sdegna” (un sapore “sdegnoso” è fastidioso per l’eccessiva dolcezza).
- “Questi cardi amaròstici sono” (di un sapore amaro leggermente sgradevole).
- “Io sono difficile di mangiare” (i miei gusti gastronomici sono decisamente difficili).
Spesso si chiedono ai convitati, ansiosamente, dei responsi: “Come ti pare questo sugo?” / “Non è strambo” (e questo risulta un giudizio benevolo, anche se la litote non è una lode incondizionata…).
Ci sono poi, immancabilmente, desideri particolari, c’è lo “spinno” di qualcosa che si vuole fortemente: “Ho spinno di melenzane”.
Dal fruttivendolo si può spesso udire una frase equivoca per chi non è del luogo: “Ne ha giri?” (cioè “ne ha bietole?”).
Non mancano le espressioni di cortesia: se un amico arriva a pasto iniziato (cosa comunque poco piacevole), gli si offre un piatto ancora intatto (o quasi…): “Lo vuoi ? È senza toccato!”.
Una vera tragedia è la prematura scomparsa da tavola del pane: “Mi, il pane tutto se n’è andato!”; è come un lutto improvviso, una diserzione dal campo di battaglia nel momento del maggior pericolo.
Soltanto a Palermo, alle quattro di pomeriggio della domenica, si vedono ambulanti abusivi che vendono pane e che hanno (pure a quell’ora!) numerosi clienti: senza pane i siciliani sono rimasti per secoli; ora non ne tollerano la mancanza nemmeno effimera.
E il pane, comunque, non si getta mai, neanche se ne avanza molto; in questi casi si dice: “Mi pare pena a buttarlo” – “Il Signore non vuole”.
Tipica della mentalità siciliana è la sovrabbondanza degli approvvigionamenti, la necessità fisica di avere la casa stracolma di viveri e bevande. Ecco dunque che il capofamiglia, se va a comprare il vino, ne prende “un cinque bottiglie” come minimo…
Nei (rari) casi in cui le provviste scarseggiano, ci si arrangia, ci si accontenta obtorto collo: “Buono e buon’è mi mangio sta pizza” (cioè “alla peggio…”).
A fine pasto, si può essere molto sazi: “Appanzato mi sento”. In tal caso, sarebbe molto deludente un caffè che non è “come Dio comanda”: “Mii, sto caffè acqua di polipo è!”.
Bisogna comunque, sia a tavola sia altrove, guardarsi dal rischio di fare “discorsi di caffè”, che sono evidentemente “aria fritta”, vacuità assoluta, inconsistenza ideologica.
In conclusione, però, soprattutto quando una cena in famiglia o con amici è giunta inaspettata, la soddisfazione è immensa: “Mah! Non c’era messa, questa cena!”.
Dal mondo gastronomico provengono alcune ricorrenti metafore:
- “Un altro mangiare è!” (detto di una cosa particolarmente bella ed intrigante, specialmente se paragonata a un’altra meno “appetibile”).
- “Peppino? Quattro fili se li mangia” (quando una persona “si mangia quattro fili” – ovviamente di pasta – dimostra di essere competente e affidabile).
Una curiosità: la bottiglietta d’acqua minerale in Sicilia si chiama “scioppettino”; i baristi delle altre regioni sono avvisati…
P.S.: L’immagine in evidenza è tratta dal film “Mafioso” di Alberto Lattuada (1962), con Alberto Sordi nei panni di un siciliano, emigrato al Nord, che – tornato nell’isola natia con moglie (continentale inorridita) e figlie – viene accolto da un pranzo pantagruelico.