Nel IX libro dell’Iliade il vecchio re Nestore consiglia di inviare ad Achille un’ambasceria che tenti di placarlo e di indurlo a tornare a combattere, promettendogli splendidi doni e la restituzione di Briseide. Odisseo, Aiace e Fenice si recano alla tenda di Achille, trovandolo intento a suonare la cetra in compagnia del caro amico Patroclo. Gli ambasciatori sono accolti cordialmente, ma Achille respinge ogni proposta di conciliazione: l’eroe ribadisce la propria avversione per Agamennone, l’amarezza per l’ingratitudine del condottiero, il netto rifiuto dei doni tardivamente offerti; riferisce poi su “due sorti” (διχθαδίας κῆρας, v. 411) che, a detta di sua madre Teti, gli si propongono in alternativa: o un’imminente morte eroica in battaglia con conseguente gloria eterna, o una vita lunga ma ingloriosa dopo il ritorno in patria.
Ecco anzitutto i vv. 388-420 del IX libro nella traduzione di Maria Grazia Ciani:
«E non sposerò sua figlia neanche se fosse più bella della bionda Afrodite o piena d’ingegno come Atena dagli occhi azzurri; non voglio sposarla; un altro fra i Danai si scelga, uno degno di lui, uno più potente di me. Se gli dei mi salvano, se a casa potrò fare ritorno, sarà Peleo a cercarmi una sposa: in tutta l’Ellade e a Ftia vi sono molte giovani achee, figlie di eroi difensori di città, e fra loro mi prenderò la sposa che voglio; è là che il cuore mi spinge, a godere i beni raccolti dal vecchio Peleo dopo aver scelto una sposa legittima, una degna compagna.
Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio fiorente possedeva prima, in tempo di pace, prima che giungessero i figli dei Danai; non le ricchezze che racchiude, dietro la soglia di pietra, il tempio di Apollo signore dei dardi, a Pito rocciosa; buoi si possono rubare, e pecore pingui, tripodi si possono acquistare e cavalli dalle fulve criniere; ma la vita dell’uomo non ritorna indietro, non si può riprendere o rapire, quando ha passato la barriera dei denti.
Mia madre, Teti dai sandali argentei, mi parla di due destini che mi conducono a morte: se resto qui a battermi intorno alle mura di Troia, non farò più ritorno ma eterna sarà la mia gloria; se invece torno a casa, nella patria terra, per me non vi sarà gloria, ma avrò lunga vita, non mi raggiungerà presto il destino di morte. Ed anche a tutti gli altri io vorrei dire: prendete il mare, tornate a casa: mai vedrete la fine dell’alta città di Ilio, su di essa Zeus dalla voce tonante ha steso la mano, i guerrieri han ripreso coraggio».
Come si vede, in questo passo Achille respinge categoricamente l’offerta di un matrimonio con una delle figlie di Agamennone; a tale offerta egli contrappone la prospettiva di un matrimonio in patria, con una donna che gli sarà trovata da suo padre Peleo. L’insistenza sul rifiuto del matrimonio proposto da Agamennone è evidenziata dall’anafora (οὐ γαμέω… οὐδέ μιν ὧς γαμέω, vv. 388 e 391) ed è tanto più significativa in quanto proprio su queste nozze aveva fatto affidamento l’Atride per ricondurre “all’ordine” Achille, introducendolo nel suo oikos in un ruolo evidentemente subordinato.
In particolare al v. 395 le “molte giovani achee” che potrebbero divenire spose di Achille nella sua terra natale si contrappongono alle tre figlie di Agamennone (Crisòtemi, Laodice e Ifianassa: cfr. Il. IX 145); il tono dell’eroe appare sarcastico, nel ribadire il netto rifiuto di ogni accomodamento con l’Atrìde.
Al v. 400 l’immagine di Achille che si gode l’eredità paterna, senza aggiungere niente al patrimonio accumulato per lui dal padre Peleo, appare francamente insolita; ma questo è, per l’eroe, un momento di profonda amarezza, un momento in cui egli sta mettendo in discussione il codice del comportamento eroico: non c’è da meravigliarsi, quindi, che egli inizi qui a vagheggiare una vita diversa, senza più fatiche guerresche, senza la ricerca della gloria (κλέος), senza l’affannosa ricerca di un “dono onorifico” (γέρας).
In questa ipotetica esistenza “alternativa”, radicalmente opposta a quella “tipica” dell’eroe omerico, nient’altro può “valere quanto la vita” (ψυχῆς ἀντάξιον, v. 401), poiché tutto a questo mondo si può procurare o comprare, ma non la vita d’un uomo (vd. vv. 408-409).
Achille cita (vv. 410-416) le due alternative (διχθαδίας κῆρας “due sorti”) che gli si presentano: 1) se rimarrà a combattere a Troia perirà il suo ritorno (νόστος), ma avrà eterna gloria (κλέος ἄφθιτον); 2) se invece tornerà in patria, la sua gloria perirà, ma vivrà una lunga esistenza.
Fra le due alternative il Pelìde non sembra avere ancora scelto; ma emerge dalle sue parole una prospettiva comunque nuova per il mondo omerico: quella di una vita pacifica, “non eroica”. Vero è che tale progetto appare solo ipotetico ed ispirato da un momento di amarezza e disillusione, ma resta la sorpresa per la concezione di un’esistenza “alternativa”, in cui la ψυχή conta più del κλέος, in cui non si è più obbligati a combattere, a rischiare.
Un’interessante prospettiva critica è stata aperta da Franco Ferrucci, che, in un libro dedicato ai due “archetipi” narrativi della narrazione, L’assedio e il ritorno, ha scorto nell’alternativa posta da Achille “il capovolgimento dell’intero destino umano nel mondo: al modello esistenziale dell’assedio egli sta qui opponendo il modello del ritorno, l’abbandono della lotta e la preservazione della vita”; lo studioso osservava peraltro che “il doppio destino è una invenzione di quel momento di volontaria speranza: la madre Teti, nell’incontro del canto I, non ha parlato affatto della possibilità del ritorno e di una lunga vita pacifica nella terra dei suoi padri, ma dell’inevitabile brevità del suo fato”.
Ma è forse vano cercare una coerenza nelle parole di Achille, dettate da uno stato d’animo tormentato, caratterizzato da profonda amarezza e da un forte senso di frustrazione.
Va ricordato infine che nell’Odissea, Achille – ormai nell’Ade – scioglierà ogni riserva, dichiarando solennemente a Odisseo che è meglio vivere come l’ultimo tra gli uomini piuttosto che regnare fra i morti: “Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. / Vorrei esser bifolco, servire un padrone, / un diseredato, che non avesse ricchezza, / piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte” (cfr. Od. XI 488-491, trad. Calzecchi Onesti).