Ieri, 12 novembre, il presidente della Repubblica Mattarella è venuto qui a Palermo per partecipare alla cerimonia di intitolazione dell’aula bunker a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Molte erano le autorità presenti, ma mancava Alfredo Morvillo, magistrato e cognato di Falcone, che ha così dichiarato venerdì sera: «Non si può accettare di condividere questo momento con personaggi, inevitabilmente invitati, che non hanno nulla a che fare con i nostri amatissimi indimenticabili giudici»; infatti tali personaggi, a parere di Morvillo, «non tralasciano di mandare alla cittadinanza messaggi di pacifica convivenza con ambienti notoriamente in odore di mafia».
Già in occasione delle manifestazioni del 23 maggio per il trentennale della strage di Capaci, Morvillo aveva detto: «C’è chi strizza l’occhio a personaggi condannati per mafia. C’è una Palermo che gli va dietro, se li contende e li sostiene… Davanti a questi fatti mi viene in mente un cattivo pensiero: certe morti sono stati inutili…».
Sulla situazione attuale in Sicilia, oggi “Repubblica” presenta un’intervista con il mio ex collega di corso al Liceo Umberto I di Palermo, prof. Giuseppe Savagnone, uno dei più seri e profondi intellettuali che ho l’onore di aver conosciuto in questa città.
L’articolo inizia con una lucida analisi dell’attuale situazione nell’isola: «La Sicilia sembra condannata a un eterno presente. Non riesce a uscire da una classe dirigente che è sempre la stessa». In proposito, Savagnone aggiunge subito senza mezzi termini: «Non si può dimenticare cosa è accaduto a Palermo».
Alla domanda relativa al “diritto di tornare alla vita pubblica” per coloro che hanno pagato il loro debito con la giustizia, l’insigne docente risponde: «Il problema non è il singolo, ma il simbolo che rappresenta. Nella vita pubblica ci sono valori che devono essere tutelati, e la storia non si può cancellare. Allora, non sono in discussione i diritti di persone che hanno scontato il loro debito con la giustizia, ma l’opportunità politica di una partecipazione e la memoria di un’intera comunità. Non possiamo dimenticare cosa è avvenuto in questa terra. Le storie dell’ex presidente Cuffaro e dell’ex senatore Dell’Utri avrebbero consigliato grande prudenza».
Più avanti, Salvo Palazzolo chiede opportunamente a Savagnone (che è stato Maestro indimenticabile di intere generazioni di studenti): «Cosa le chiedono i giovani che incontra nelle sue tante iniziative?». La risposta è amara: «Percepiscono l’incapacità degli adulti di immaginare un futuro. E da soli i giovani non riescono a elaborarlo, hanno bisogno necessariamente degli adulti. Ecco perché spesso sono qualunquisti: colpa degli adulti che non sanno immaginare una prospettiva di cambiamento».
L’intervista contiene altri acuti spunti di riflessione sul «calo di attenzione sul tema della lotta alla mafia, ma anche sulle questioni che attengono al bene comune»; in particolare, a parere del collega, «L’astensionismo alle ultime elezioni è stato un segnale davvero preoccupante su cui riflettere» (e qui sfonda una porta aperta: anche a me è capitato di deplorare, non solo in questa sede, che il P.A.I., Partito Astensionista Italiano, sia il primo in Italia).
Savagnone mostra poi gratitudine al dottor Morvillo, «che ha sempre posto questioni importanti con grande compostezza, senza mai indugiare alla spettacolarizzazione; in questa società dominata dagli influencer, una lezione di serietà. Dobbiamo essere grati anche a Maria Falcone, a Rita Borsellino e a tutti quei familiari che hanno sempre realizzato attività culturali in favore dei nostri giovani».
Infine, alla domanda sulle conseguenze della presa di posizione di Morvillo, Savagnone risponde: «La sua assenza è chiaramente legata alla presenza di pezzi dello Stato che sono stati ormai sdoganati. Questo è il senso della memoria: non dimenticare il passato. Ecco, potremmo dire che oggi c’è una pesante crisi della memoria e della speranza. Il nostro è tornato a essere un paese smemorato. E le parole di Alfredo Morvillo non devono restare solo una personale presa di posizione: si dovrebbe avviare piuttosto una riflessione sull’attuale momento che vive la Sicilia. Una riflessione sulla politica, sulla società civile, anche per cogliere le trasformazioni dell’organizzazione mafiosa, che abbandonata la stagione delle stragi prova a infiltrarsi sempre più nei gangli fondamentali della società e delle istituzioni».
C’è ben poco da aggiungere all’attenta analisi del prof. Savagnone: la sua esortazione finale ad “avviare piuttosto una riflessione sull’attuale momento che vive la Sicilia” dovrebbe trovare adesioni concrete, non limitate però a convegni eruditi, a dissertazioni sterili e a illusorie prese di posizione teoriche.
Lo stato confusionale, in particolare, in cui versano attualmente molti esponenti delle forze progressiste dovrebbe essere guarito con salutari bagni di realtà, con lo studio umile e attento delle nuove dinamiche sociali e culturali, con il doveroso aggiornamento di posizioni ideologiche obsolete (se non nelle intenzioni almeno nelle loro possibilità di ricaduta concreta sul reale).
In questa latitanza o negligenza delle migliori forze della società, è ovvio che le organizzazioni criminali “bagnano il pane” entusiasticamente, infiltrandosi sempre meglio “nei gangli fondamentali della società e delle istituzioni”.
Su un altro punto evidenziato opportunamente da Savagnone vorrei aggiungere qualche considerazione; si tratta del discorso relativo alle responsabilità che gli adulti hanno sull’educazione e la maturazione dei giovani.
Da uomo di scuola, non posso non constatare amaramente un’inadeguatezza palese dell’istruzione di oggi a “seguire” e “inseguire” il presente.
Mentre vengono riproposti i soliti “programmi ministeriali” (spesso identici o quasi a quelli che studiavamo noi mezzo secolo fa), mentre tutti i tipi di scuola arrancano snaturandosi (la scuola elementare assume connotati da scuola media, la scuola media da liceo, il liceo da pseudouniversità), mentre parallelamente e paradossalmente l’università si “licealizza” (soprattutto nella fase triennale), mentre il rapporto fra docenti e insegnanti si limita a un accumulo sterile e piatto di “nozioni” fredde e aride, spropositate nella quantità e inconsistenti nella qualità, mentre la capacità di incidere nell’animo e nel cuore delle ragazze e dei ragazzi diventa sempre più rara (magari dando a loro la colpa, perché è comodo e facile fare così), mentre tutto questo avviene (e proprio perché tutto questo avviene) i giovani si sbandano, annaspano, cercano e non trovano modelli, cadono nelle facili e banali tentazioni dei social. Non mancano, è ovvio, realtà più fortunate, docenti sensibili e aperti, strategie didattiche ed educative efficaci; ma purtroppo il quadro generale è (purtroppo) prevalentemente quello descritto prima.
Troppo spesso alle giovani generazioni non vengono forniti strumenti per capire il presente; il “gap” generazionale viene segnalato con disagio da entrambe le parti (giovani e adulti), mentre il dialogo educativo (che andrebbe fatto con la passione, col cuore, con la vicinanza, con la comprensione, con la condivisione, con l’esempio) latita, zoppica, viene meno, si spegne.
Molti adulti dovrebbero far proprio il motto ciceroniano “nos, nos consules desumus” (“siamo noi, noi consoli, a mancare al nostro dovere”); non a caso, come dice Savagnone, i giovani “percepiscono l’incapacità degli adulti di immaginare un futuro”; e ciò dipende dal fatto che molti adulti, che hanno attraversato questo secolo e il precedente, si sono inariditi nell’accettazione di un deludente presente, hanno dimenticato e rimosso le più preziose memorie del passato e soprattutto hanno finito di illudersi e si sono adeguati al generale grigiore del tran tran quotidiano.
Ma i giovani invece (ha ragione Savagnone) “hanno bisogno necessariamente degli adulti” (anche e soprattutto quando dicono di non averne) e, se restano privi di figure che li possano motivare e coinvolgere, cadono nel qualunquismo più spicciolo e ingenuo.
Da quell’aula bunker intitolata oggi a Falcone e Borsellino (forse con una punta di oblìo per altre figure eccelse come Alfonso Giordano e come il mio rimpianto amico Enzo Mineo, che a quell’aula hanno dato un contributo infinito), dovrebbe venire a tutti la convinzione che, quando si vuole davvero, la giustizia c’è, si può fare, si fa.
Questo avrebbero diritto di capire soprattutto le giovani generazioni; allora davvero si potrà sperare di non rivedere mai più fotocopie sbiadite di un passato da dimenticare, riedizioni penose di improponibili “déjà-vu” e arroganti riproposizioni di copioni che si sperava fossero accantonati per sempre.