Ieri, 30 luglio 2023, il mio caro amico Toti mi ha segnalato un articolo su Palermo Today in cui era presentata la nuova stagione del Teatro Massimo; essa prevede “otto opere, tredici concerti e tre balletti ispirati a personaggi fiabeschi”; l’inizio è fissato il 22 novembre con “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini, con la direzione di Omer Meir Wellber e la regia del coreografo e regista israeliano Idan Cohen.
Il regista del primo spettacolo, palesemente in solluchero per la sua talentuosa creatività, ha comunicato le seguenti anticipazioni sulla sua regia: «Ho immaginato di ambientare l’opera in un museo tassidermico distopico disegnato magistralmente dalle scene di Riccardo Massironi e dai costumi di Edoardo Russo. Durante lo svolgimento dell’opera il museo, con le sue teche e le sue immagini riflesse, subisce un’affascinante trasformazione. La sabbia che scorre nelle grandi clessidre che occupano la scena infrange il vetro e invade il palcoscenico. Quanto accade serve non solo a offrire una metafora del modo in cui interagiamo con la natura e la cultura, ma anche ad analizzare la manipolazione dei giovani amanti in una società che idealizza e feticizza la giovinezza, e in particolare il corpo delle donne».
Toti, nel segnalarmi l’articolo, mi ha fatto notare come quel “museo tassidermico distopico” abbia un effetto spiazzante nei lettori; e in effetti l’espressione ermetica ed elitaria usata dal regista israeliano lascia per lo meno perplessi.
Vero è che ormai nella messa in scena delle opere liriche siamo abituati a tutto: allestimenti fantascientifici ambientati in galassie più o meno lontane, rivisitazioni in futuri (questi sì) “distopici” o nei contesti storici più sconvolgenti, ricerca della “provocazione” a tutti i costi nel desiderio evidente di “far parlare” della messinscena adottata, amenità scenografiche (piani inclinati che coprono mezzo palcoscenico, tralicci, tubi, inferriate, ecc.).
Il tutto con buona pace del “sacro” melodramma italiano, destinato alla “dissacrazione” più radicale fra lo sbigottimento, lo sconcerto e la crescente disaffezione degli spettatori (almeno di quelli meno disposti alla “radicalizzazione” a ogni costo degli spettacoli teatrali).
Il regista Cohen però non si ferma qui: Romeo e Giulietta, come previsto da Bellini, saranno interpretati da due donne (la consuetudine voleva che la voce degli adolescenti maschi, ritenuta ancora non sviluppata, fosse affidata a interpreti femminili); ma Cohen, accentuando le indicazioni della partitura, trasformerà Romeo e Giulietta in due donne che si amano e «che rappresentano diversi punti di vista della femminilità, attraverso una moltitudine di prospettive e obiettivi culturali»; in questo modo sarà sicuramente garantita un’ulteriore occasione di dibattito su tematiche attuali, al netto, però, di qualsiasi idea di “fedeltà” all’opera originaria.
Ovviamente soltanto la visione diretta dello spettacolo potrà dimostrare la validità delle “coraggiose” ed estreme provocazioni del regista; resta però l’impressione che almeno il “museo tassidermico distopico” potesse essere risparmiato agli spettatori, che avrebbero il sacrosanto diritto di comprendere pienamente quello che li aspetta senza l’ausilio di vocabolari e senza consultazioni del Vangelo secondo Google.
Ma tant’è: mentre c’è chi si culla su esternazioni intellettualistiche incomprensibili alla gente comune, la società odierna scivola per contrasto sempre più verso il kitsch, l’ignoranza, la sciatteria. I due estremi, forse, si toccano: e ciò dipende, comunque, dalla perdita di ogni senso della misura, dalla mancata e ostentata volontà di dialogo o, peggio, dalla convinzione che il proprio linguaggio sia sempre e comunque comprensibile e condivisibile.
Per dirla con Pirandello, «crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!». E sicuramente Bellini e Shakespeare, se sentissero sproloquiare di “museo tassidermico distopico”, si rivolterebbero nelle loro tombe non tassidermiche.