Continuiamo la rassegna di vocaboli ed espressioni del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.
Eccone altri cinque.
1) ACCUPAZIONE – Oggi il cielo a Palermo è coperto, anzi “accupatu”. L’aggettivo “accupatu” e il corrispettivo sostantivo “accupazione” non hanno alcun legame con “occupato” ed “occupazione”; si collegano invece all’aggettivo “cupo” e indicano, per l’appunto, qualcosa di cupo ed opprimente.
Il vocabolario del Traina spiega minuziosamente il sostantivo “accupazioni”: «difficile e penosa respirazione, […] certo affanno, che per gravezza d’aria, o soverchio caldo, par che renda difficile la respirazione; si dice pure di cosa fastidiosa, tetra, opprimente».
Afa, oppressione, mancanza di respiro: tutto questo è l’“accupazione”: e dunque, se un siciliano dice “Mi sta venendo l’accupazione” non vuol dire che ha trovato lavoro (magari!), ma anzi che si sente oppresso e angosciato da una situazione contingente.
Parallelamente, “accupusu” è qualcosa che crea ansia: lo può essere un ambiente (“questa stanza è accupusa”) o una giornata molto nuvolosa.
2) ARRICAMPARSI – «Miiiiiiiiiiiii, finalmente ti stai arricampando!!». Così dice la mamma al figlio adolescente che si ritira a casa troppo tardi la sera, la moglie al coniuge uscito di casa e dato per disperso, la famiglia al parente cui si temeva fosse successo qualcosa.
Ci deve essere qualche legame con il verbo “campare” (nel senso di “vivere”); per chi non lo sapesse, poi, questo verbo deriva a sua volta dal francese “camper”, nel senso militare di “accamparsi”: chi si “accampa” tornando nel suo “accampamento” può infatti finalmente “campare” tranquillo e al sicuro. Parallelamente, in Sicilia, chi “si arricampa” a casa può ricominciarvi la solita normale esistenza quotidiana.
In ogni caso, la raccomandazione “Arricàmpati presto” è doverosa per chi tende a dimenticare la strada di casa e a vagare lontano dall’ovile…
3) SCANTO – Lo “scantu” è lo spavento, la paura; per Mortillaro è «immaginazione di male soprastante, sbigottimento d’animo per aspettazione di male». Insomma chi è “scantato” ha paura: ed esempio eclatante ne è lo “scantato del presepe”.
Qui in Sicilia nel presepe natalizio lo “spaventato” (o “scantatu” o “spirdatu”) è un personaggio indispensabile: si tratta di un pastore che allarga le braccia con gli occhi sbarrati, stupito o (appunto) intimorito da ciò che sta vedendo. Al contrario delle altre statuine, lo “spaventato” non svolge nessuna attività: non vende niente, non bada alle pecore, non suona la zampogna, non porta legna o altro; se ne sta davanti alla capanna con le braccia aperte e lo sguardo rivolto verso il cielo, con la testa reclinata all’indietro e l’aria stupefatta e turbata. Siccome non sembra che la capanna con il bue e l’asinello possa costituire una visione così terribile, si è ipotizzato che il timore del poveraccio derivi dalla vista di qualcosa di soprannaturale (l’angelo o, soprattutto, la cometa: da qui l’espressione “spavintatu ra stidda” che si sente in certe zone della Sicilia). Il pastore timoroso è anche passato anche in proverbio: quando qualcuno si mostra pavido o eccessivamente preoccupato per qualcosa, viene senz’altro definito “scantatu r’u prissepe”.
Il termine ha anche un diminutivo ironico: “scantatizzu” è chi si spaventa di niente, chi immagina pericoli anche dove non ce ne sono.
Non mancano poi detti abituali, come ad es. “fu scantu e fu niente”, che si dice quando, ad esempio, avviene un incidente automobilistico senza morti e feriti: c’è stato solo un brutto spavento, ma senza conseguenze tragiche (per fortuna).
4) SDEGNOSO – Se in italiano “sdegnoso” è «persona che dimostra sdegno, cioè avversione, disprezzo o rifiuto per tutto ciò che le appare in contrasto con i propri gusti, con i propri princìpi: “un uomo sdegnoso di ogni compromesso”» (vocabolario Treccani), in Sicilia “sdegnoso” è un cibo che ha un gusto troppo dolce: “questa torta è sdegnosa”. Dunque, una pietanza viene definita “sdegnosa” non perché provoca “sdegno” (nel senso di avversione e rifiuto) ma perché chi la assaggia prova una sorta di nausea, infastidito dal suo sapore eccessivamente dolce.
Paradossalmente, c’è qui in Sicilia un limite alla sopportazione della dolcezza: e se è vero che i siciliani possiedono una quantità di dolci impressionante (in numero esponenzialmente superiore a qualunque altra parte d’Italia), è altrettanto vero che a volte ne ricavano una sorta di sazietà e di “sdegno”, soprattutto quando tali delizie risultano troppo generose nella quantità di zuccheri utilizzata. Inutile dire che, da queste parti, bisogna stare molto attenti alla glicemia…
5) NON CI PUÒ NIENTE – L’espressione confessa l’impossibilità assoluta di ottenere un risultato sperato. Vale in particolare per certe persone, che benché guidate, consigliate, assistite e supportate continuano a fare di testa loro alla faccia degli altri, con le ovvie conseguenze negative: con queste persone “non ci può niente”, non c’è niente da fare.
C’è un ragazzo svogliato, abulico, che non studia e non si impegna? Non ci può niente.
A Palermo in ogni strada pullulano micidiali buche e “scaffe” omicide? Non ci può niente.
Gli automobilisti locali non hanno una minima idea di cosa sia il codice stradale e ritengono che dare la precedenza agli incroci sia un disonore insopportabile? Non ci può niente.
L’immondizia giace ad ogni angolo di strada? Non ci può niente.
Certi negozianti non rilasciano mai lo scontrino fiscale? Non ci può niente.
Interi quartieri di Palermo vivono nell’illegalità radicata e indisturbata, costituendo veri e propri stati indipendenti? Non ci può niente.
Questa espressione è l’emblema più eclatante dell’immobilismo e del fatalismo siciliano: così è stato, così è, così sarà.
Non c’è niente da fare.
E visto che non c’è niente da fare, che “non ci può niente”, tanto vale vivere, anzi sopravvivere, così come sempre si è fatto.