L’ultima lettera del Conte di Montecristo

Alexandre Dumas, detto poi “Dumas padre” per distinguerlo dal figlio omonimo, raggiunse il culmine della sua carriera letteraria nel biennio 1844-45. In quel periodo la sua “ditta”, che oltre a lui comprendeva diversi abili soggettisti e amanuensi ai suoi ordini, sfornò una serie impressionante di romanzi-fiume, destinati a uno straordinario successo: “I tre moschettieri”, “Vent’anni dopo” e “Il conte di Montecristo”: in tutto qualcosa come 4.500 pagine, che furono proposte a puntate ai lettori appassionati del parigino “Journal des Débats”.

Alexandre Dumas padre (1802-1870)

Nella produzione del famoso “imprenditore letterario” (come una volta ebbe a definirlo Giovanni Raboni) questi tre volumi costituiscono tre cosiddetti “capolavori”. Ma proprio questa definizione di “capolavoro”, impegnativa e generica al tempo stesso, ha provocato spesso accesi dibattiti, se non aperti diverbi, fra chi non ammette neanche lontanamente la possibilità di porre i romanzi di Dumas sullo stesso piano di quelli di autori come Balzac, Dickens, Dostoevskij, Hugo, Stendhal, Thackeray, Tolstoj, ecc. e chi invece ritiene che proprio il successo clamoroso presso il pubblico debba indurre ad accogliere anche i romanzi “d’avventure” tra i capisaldi della letteratura di ogni tempo e Paese.

Tuttavia è proprio la distinzione (contraddistinta da una malcelata puzza sotto il naso di insigni critici) fra romanzo “tout court” e “romanzo d’avventure” (se non “romanzo popolare”) a costituire una semplificazione, che mostra spesso tutti i suoi limiti: è infatti possibile trovare palesi tracce del “romanzo di serie B” in romanzi che in serie A militano di diritto (siano essi “La certosa di Parma”, o “Barry Lyndon”, o le “Grandi speranze”, o altre opere “alte”), mentre d’altro canto alcune pagine dei “Tre moschettieri” o del “Conte di Montecristo” superano palesemente gli angusti limiti della scrittura “popolare” per divenire manifestazioni di un’arte non effimera, non banale e non sottovalutabile.

Il problema resta aperto, ma tormenta soprattutto (se non esclusivamente) gli irriducibili difensori di un’arte “sacra” e “alta”, ritenuta – in quanto tale – non contaminabile da opere “di facile consumo”. Nel caso mio, e di molti che la pensano come me, la letteratura “nazional-popolare” (o “epica”) dei Dumas, dei Salgari, dei Verne, dei Tolkien, e di tanti altri autori come loro, non solo ha il merito di aver riempito positivamente molte giornate di vita ma ha lasciato ricordi indelebili, ha costruito un immaginario collettivo, ha creato anche (pur nella piacevolezza di una lettura raramente noiosa) occasioni di riflessione e di approfondimento spirituale.

Un esempio lampante è dato proprio dal “Conte di Montecristo”, tornato recentemente sotto i riflettori in seguito alla programmazione ravvicinata di due nuove “fiction” televisive: la prima, andata in onda su Canale 5 il 26 e 27 dicembre scorso, era uscita in Francia l’anno scorso, ma (a quanto pare) ha deluso le aspettative di molti, risultando sostanzialmente un flop; la seconda è la miniserie televisiva franco-italiana diretta dal regista danese Bille August, scritta da sceneggiatori come Greg Latter e Sandro Petraglia (già sceneggiatore di serie fortunate come “La Piovra”), che ha invece avuto un ottimo esordio lunedì scorso, 13 gennaio 2025, su Rai Uno, con oltre 5 milioni di spettatori e recensioni prevalentemente positive.

Su quest’ultima fiction mi riservo di esprimere una valutazione alla fine della sua programmazione; nel frattempo, però, per confermare quanto si diceva prima, e cioè la ricchezza di suggestioni che possono derivare dalla lettura del “Conte di Montecristo”, mi limiterò a proporre qualche riflessione sull’ultima pagina del romanzo. [Non si preoccupi però chi non ha letto il romanzo ed è sfuggito anche a tutte le sue precedenti riproposizioni televisive e cinematografiche: l’arte di non “spoilerare” troppo è ormai diventata il primo requisito indispensabile a chi osi scrivere qualche riga per poi proiettarla nell’infinito calderone della rete globale universale].

L’ultima lettera di Edmond Dantès è rivolta a un ragazzo e una ragazza a lui molto cari, che rappresentano un futuro migliore, finalmente libero dall’asfissiante mondo delle vendette, dei rancori, delle sofferenze vissute o provocate. Dopo aver lasciato ai destinatari le indicazioni sui doni nuziali a loro dedicati, Dantès chiede che i due giovani preghino «per un uomo che, simile a Satana, per un momento si è creduto simile a Dio e ha riconosciuto, con tutta l’umiltà di un cristiano, che nelle mani di Dio soltanto sta il supremo potere e la infinita sapienza».

L’uomo che aveva fatto della vendetta l’unica ragione della sua esistenza, che aveva ricercato, trovato e sistematicamente punito coloro che avevano rovinato la sua gioventù, condannandolo ingiustamente al carcere e alla perdita di tutte le persone più care, riflette ora sulla liceità e sui limiti della vendetta stessa.

La detenzione per moltissimi anni nel tetro Castello d’If, l’incontro provvidenziale con l’abate Faria (suo salvatore in tutti i sensi), il ritrovamento dell’immensa fortuna nascosta nell’isola di Montecristo, la possibilità (fornita dal dio più potente di tutti, il denaro) di vendicare i torti ricevuti: tutto questo ha condotto Dantès al coronamento di anni e anni di paziente attesa, ma ha lasciato in lui lacerazioni nuove, ha coinvolto innocenti, ha provocato nuovi e ingiusti dolori. Ecco perché egli aggiunge: «Queste preghiere addolciranno forse i rimorsi che porta con sé nel profondo del cuore».

Giunto a questo punto, il protagonista lascia in eredità ai due giovani anche la sua “Weltanschauung”, la sua estrema filosofia di vita: «non vi è né felicità né infelicità in questo mondo, è soltanto il paragone di uno stato ad un altro, ecco tutto. Solo chi ha provato l’estremo dolore può gustare la suprema felicità. Bisognava aver bramato la morte, per sapere quale bene è vivere». L’esperienza del dolore è condizione ineliminabile per la felicità, l’antico “imparare soffrendo” (il “pàthei màthos” – πάθει μάθος – di Eschilo) è la verità più profonda che ci sia dato di conoscere.

Nell’augurare infine ai due giovani di essere felici, lo scrivente aggiunge un’ultima “pillola di saggezza”: «Vivete dunque e siate felici, figli prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: Aspettare e sperare. Vostro amico Edmondo Dantès, Conte di Montecristo» (ho citato qui la traduzione italiana di Emilio Franceschini, dall’edizione Oscar Mondadori, Milano 1984).

Aspetta e spera.

Fa sorridere il fatto che, per una di quelle associazioni automatiche che avvengono nella nostra mente, mi sia subito venuta in mente quella crudele canzone colonialista del ventennio: “Faccetta nera, bell’abissina, / aspetta e spera che già l’ora si avvicina! / Quando staremo vicino a te / Noi ti daremo un’altra legge e un altro Re”. E – pensavo – per rendere reale quella supposta e imposta “speranza”, quante violenze, quanto sangue, quante vittime! Lì “aspetta e spera” era espressione di un’ironia feroce e razzista.

Aspetta e spera.

Ma allora si deve sperare in mezzo al dolore, al male, all’ingiustizia, alla violenza? Occorre stringere i denti, contare i giorni che scorrono, aspettare sempre, aspettare comunque, che arrivi il giorno che cambi le carte in tavola? Sì, ma c’è troppa gente che aspetta, al giorno d’oggi: aspettano verità e giustizia i genitori di Giulio Regeni, aspettano verità e giustizia le vittime delle troppe stragi (più o meno dimenticate) avvenute nel nostro Paese, aspettano verità e giustizia tutti coloro che, ostinandosi ad agire onestamente e secondo coscienza, vedono troppo spesso prevalere coloro che l’onestà e la coscienza calpestano immancabilmente ogni istante.

Ecco allora a che serve la vicenda di Edmond Dantès: il suo esempio dà speranza, perché almeno per lui l’attesa e la speranza sono arrivate a un esito, non si sono fossilizzate in un tempo infinito e mai vissuto. Ecco dunque che questo romanzo “d’avventure”, questo romanzo che leggevamo da ragazzi e che si può ancora rileggere a settant’anni d’età con spirito “altro”, con intuizioni nuove e con considerazioni diverse, questo romanzo riesce a parlarci ancora, a indurre la riflessione, a innescare il dibattito.

Le parole sono pietre, come diceva Carlo Levi: e in un’epoca in cui troppo spesso si parla a vanvera, in cui troppi sono pronti a negare – dieci minuti dopo – quello che avevano detto dieci minuti prima (magari riversando sugli altri la colpa dell’“equivoco”), sono rare e preziose le parole che lasciano il segno, che ci fanno riflettere, che ci fanno ancora sentire la dignità degli esseri umani e che ci fanno aver cara, ogni giorno che rimane, la possibilità di camminare su questa terra.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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