Dopo il 15 a. C. Ovidio compose le “Heroides” (cioè “Le Eroine”: il latino “herois” corrisponde al greco ἡρωίς). Si tratta di una raccolta di ventuno lettere in metro elegiaco, che il poeta immagina inviate da alcune eroine del mito ai loro amanti lontani; sei di esse sono disposte a coppie, sicché, oltre alla lettera dell’eroina, si ha anche quella del suo innamorato. Le ultime lettere furono forse composte poco prima dell’esilio del poeta a Tomi, tra il 4 e l’8 d.C.
Ovidio nell’”Ars amatoria” (III 345) si vanta di aver creato, con le “Heroides”, un nuovo genere letterario; in realtà però l’idea può essergli venuta dai bigliettini d’amore di Sulpicia e Cerinto, nel III libro del “corpus” tibulliano, nonché, soprattutto, dall’epistola di Aretusa a Licota in Properzio (IV 3). Evidente è pure l’influsso delle scuole di retorica, ove, come esercitazione, si assegnava agli alunni lo svolgimento di “temi” mitologici, soprattutto nella forma della “suasoria” (discorso fittizio con cui lo scrivente doveva convincere di qualcosa il destinatario. ricorrendo a tutti gli espedienti retorici più adatti). Inoltre Ovidio nelle “Heroides” assembla materiali narrativi dell’epos, della tragedia, del mito in un processo di sistematica reinterpretazione e riscrittura.
La critica ha rilevato nelle “Heroides” alcuni difetti di fondo: il patetismo, l’enfasi declamatoria, la tortuosità dei ragionamenti delle varie eroine, la ripetitività delle situazioni. Ma non meno numerosi appaiono i pregi dell’opera: soprattutto è ammirevole lo studio psicologico realizzato nella descrizione dei sentimenti delle eroine.
Come esempio, analizziamo l’epistola III, in cui Briseide scrive ad Achille.
Ovidio sottolinea inizialmente le connotazioni “barbariche” di Briseide, allorché afferma che la lettera è “con barbarica mano non bene scritta in greco” (v. 2). Subito dopo la fanciulla esprime la sua protesta per essere stata consegnata agli araldi di Agamennone e racconta di avere tentato diverse volte la fuga, senza riuscirvi. Ricorda poi l’ambasceria di Aiace, Fenice e Odisseo; cita gli splendidi doni che costoro offrirono ad Achille, ricordando, con tono geloso, il “più inutile” (“supervacuum”) tra questi doni: “giovanette di Lesbo / di superba bellezza, prigioniere di guerra” (vv. 35-36); altrettanto inutile appare alla fanciulla l’allettante proposta, fatta ad Achille dagli ambasciatori, di un nuovo matrimonio con una figlia di Agamennone.
Con parole che ricordano quelle di Andromaca nel colloquio con Ettore (Il. VI 421 ss.), Briseide ricorda ad Achille che egli le ha ucciso tre fratelli e lo sposo, sostituendo poi nel suo cuore gli affetti perduti: “tu dominus, tu vir, tu mihi frater eras” (v. 52). Achille però ha accettato di privarsi di Briseide e ora, addirittura, si dice che il Pelìde partirà da Troia, che tornerà in patria. Di fronte a questa prospettiva, Briseide disperata propone ad Achille di condurla con sé: “ti seguirò da schiava, non come fa una moglie” (v. 69); accetterà di dedicarsi a filare la lana, mentre Achille potrà pure sposare “la più bella tra le donne di Grecia” (v. 71).
La ragazza passa quindi a una nuova esortazione nei confronti dell’amato, affinché, dopo aver vinto se stesso e la sua ira (“vince animos iramque tuam”, v. 85), torni in battaglia, dopo averla ripresa con sé; giura poi solennemente di non essere stata toccata da Agamennone.
Briseide mostra invece profonda gelosia per i tradimenti di Achille: “mentre i Greci ti credono triste, suoni la lira / e nel tiepido grembo sei di una dolce amica” (vv. 113-114); anche qui si ha un riferimento ai versi omerici, in cui si diceva che accanto ad Achille “era distesa una donna, che rapì da Lesbo, / la figlia di Fòrbante, Diomeda guancia bella” (Il. IX 664-665, trad. Calzecchi Onesti). A questo punto la Briseide ovidiana sbotta: “Non la guerra, la cetra tu vuoi, l’amore e il canto / e startene nel letto abbracciando una donna” (vv. 116-117); in Achille, secondo la collerica fanciulla, è venuto meno ogni spirito bellicoso, ogni desiderio di gloria.
Briseide propone ai Greci di inviarla come messaggera ad Achille: ella saprà ottenere i risultati non raggiunti precedentemente dai tre legati; potrà contare infatti sulle arti femminili della seduzione, “mischiando molti baci ai messaggi” (v. 128); benché l’eroe sia duro e spietato, la ragazza saprà certo trovare il modo di commuoverlo.
Al termine della lettera, si ha un’appassionata perorazione: se proprio l’antico amore di Achille è finito, meglio sarebbe per Briseide morire; e la ragazza invita senz’altro Achille a trafiggerle il petto. Ma le ultime parole evidenziano una tenace speranza: “piuttosto conservami la vita che ti devo…/ Dimmi che da te venga, lo puoi, sei mio padrone, / sia che rimani sia che tu voglia partire” (vv. 149-154).
Nel IX libro dell’Iliade Achille confessava il suo amore per Briseide: la chiamava addirittura “la mia dolce sposa” (ἄλοχον θυμαρέα, IX 336) e mostrava un’acuta gelosia nei confronti di Agamennone: “giacendo accanto a lei se la goda!” (IX 336-337). L’eroe piangeva disperatamente quando Briseide gli era sottratta, anche se in lei vedeva soprattutto un dono onorifico (γέρας), simbolo evidente della sua gloria (τιμή).
D’altro canto in Omero lo stato d’animo della fanciulla era chiarito da brevi tocchi descrittivi: si allontanava “mal volentieri” dalla tenda di Achille (I, 348); tornava poi alla tenda di Achille al momento della riconciliazione con Agamennone, tra le più solenni assicurazioni del condottiero, che assicurava di averla sempre rispettata (XIX, 261). Briseide rivolgeva poi un saluto disperato al cadavere di Patroclo (XIX, 297-299).
L’ultima apparizione della giovane nel poema la ripresentava accanto ad Achille, immagine evidente di un’armonia ricostituita: “Achille dormì nel fondo della solida tenda, / e accanto a lui Briseide bella guancia si stese” (XXIV 675-676, trad. Calzecchi Onesti).
L’epistola ovidiana, nel suo acceso patetismo, è agli antipodi della sobrietà omerica; particolarmente attento è, come sempre in Ovidio, lo studio della psicologia di Briseide: nell’animo della fanciulla si alternano rimpianto e corruccio, ribellione e remissività, gelosia e passione.
I suoi rimproveri all’amante che l’ha “scaricata” senza tanti complimenti coesistono con l’affermazione ostinata dell’amore, con la disponibilità a ogni umiliazione, con la concessione dei più umili servigi. “Ti seguirò da schiava”, dice Briseide; e tornano in mente le parole della fanciulla del celebre “Fragmentum Grenfellianum” (risalente probabilmente al III secolo a.C.): anche costei, abbandonata dall’amante, oscillava tra tormento e passione, e, davanti alla porta del suo uomo, lo supplicava dicendo: “Accoglimi: son felice, bramo di esser tua schiava (ζηλῶ δουλεύειν)”.
Secondo il Barchiesi, rispetto al “topico” assoggettamento elegiaco, in cui l’uomo è sottomesso alla “domina” (“servitium amoris”), la situazione è qui capovolta: Briseide, in tal senso, è paragonabile sia all’Andromaca omerica (di cui riecheggia le parole rivolte a Ettore, cfr. Il. VI 429-430) sia alla Tecmessa dell’Aiace sofocleo.
La Briseide ovidiana è inoltre consapevole del suo fascino: sa che le basterebbero pochi minuti con Achille per riconquistarlo; sicché i suoi conclamati propositi di morte appaiono solo astuti espedienti per riconquistare l’amore di Achille.
Nell’epistola ovidiana anche il Pelìde è visto diversamente dal modello antico; è descritto come un uomo ostinato e incurante, pronto a dimenticare l’antico amore e a cadere tra le braccia di altre donne. Achille appare come un guerriero dei tempi moderni, caratterizzato da una dimensione più “quotidiana” (non è estraneo a questo processo l’influsso di modelli letterari intermedi, ad es. Euripide, in tragedie come “Ifigenia in Aulide”); e l’immagine del grande Pelìde dedito a nuovi amori, sedotto dal dolce suono della lira, pronto a cedere agli ammiccamenti lascivi della sua concubina, è fortemente dissacratoria e alternativa rispetto al modello epico.