Ecco altri tre post che avevo pubblicato l’anno scorso su Facebook durante la pandemia.
Il primo, del 17 agosto 2020, commentava la disposizione del ministro Speranza in materia di mascherine, emanata il giorno prima, che prevedeva l’obbligo, “dalle ore 18.00 alle ore 06.00 sull’intero territorio nazionale di usare protezioni delle vie respiratorie anche all’aperto, negli spazi di pertinenza dei luoghi e locali aperti al pubblico nonché negli spazi pubblici (piazze, slarghi, vie) ove per le caratteristiche fisiche sia più agevole il formarsi di assembramenti anche di natura spontanea e/o occasionale”.
Il commento partiva dalla constatazione della sistematica violazione della norma a Palermo, per poi discutere sul concetto di “slargo” (uno degli innumerevoli termini saliti alla ribalta l’anno scorso) e sull’attuabilità delle disposizioni governative (“Il governo ha la forza, la volontà, la capacità di attuare i propri editti?”).
24) 17.08.20
LA MASCHERA E GLI SLARGHI
Le nuove disposizioni del ministro Speranza in materia di mascherine prevedono l’obbligo, “dalle ore 18.00 alle ore 06.00 sull’intero territorio nazionale di usare protezioni delle vie respiratorie anche all’aperto, negli spazi di pertinenza dei luoghi e locali aperti al pubblico nonché negli spazi pubblici (piazze, slarghi, vie) ove per le caratteristiche fisiche sia più agevole il formarsi di assembramenti anche di natura spontanea e/o occasionale”.
Secondo questo criterio anche una tranquilla passeggiata in piazza, se fatta dopo le 18, potrebbe comportare una sanzione; viceversa, se non si percepisce pericolo di contagio, si potrà continuare ad uscire senza mascherina anche dopo le 18.
Ora, a parte il fatto che non si riesce a capire che cosa cambi fra le 17,59 e le 18,01, il delegare al giudizio personale il rischio di contagio o la consistenza di un assembramento non sembra un criterio molto affidabile. Ma non è tutto.
Poco fa sono uscito di casa, esattamente alle 18, per vedere quanto la gente si sia sentita “obbligata” all’uso delle mascherine. Premetto che vivo in pieno centro di Palermo, a pochi metri da piazza Politeama, e che quindi appena esco di casa percorro “piazze, slarghi e vie”. A proposito: ecco un altro termine che ci troviamo inaspettatamente a valorizzare (dopo le “rime buccali” eravamo in attesa di un nuovo stimolo lessicale): lo “slargo”. Secondo il vocabolario Gabrielli, lo “slargo” è il “punto in cui una strada, un fiume o altro si slarga formando uno spazio più ampio”. Lo slargo dunque non è via ma non è neanche piazza: è gonfiore e deformazione di una via che però non riesce a ottenere la promozione a “piazza”. Del resto, bisognava pensare anche a questo ibrido intermedio: senza questa precisazione, chi cammina in uno “slargo” avrebbe potuto affermare sofisticamente di non essere né in una via né in una piazza; meglio cautelarsi contro i sofismi, avrà pensato il solerte redattore dell’ordinanza (che di sofismi se ne intende sicuramente).
Tornando a noi, camminando in centro, che situazione ho visto? Ovviamente c’è poca gente in giro: alla faccia della crisi, della rovina dilagante, del post-lockdown, alle ferie rinunciano in pochi. Ma questi pochi, a quanto ho visto, si aggirano nell’afa cittadina privi di maschera: tranne pochi miei coetanei (i “vicchiareddi” sono i più “scantatizzi” e i più rispettosi di qualunque regola), ho visto poche persone con la maschera, tanto meno i giovani, che si aggiravano beatamente abbracciati in gruppo.
C’era anche, a dire il vero, qualche tenace sostenitore del partito della via del mezzo, cioè coloro che tengono la maschera abbassata sul mento, pronti a sguainarla in caso di presunti appestati in arrivo. Non mancano mai le mezze misure e i compromessi, che consentono però spesso di sopravvivere e cavarsela (“signor vigile, io la maschera ce l’ho, solo che mi è scivolata per il sudore…”).
In definitiva, mi chiedo, come si pensa di far rispettare questo “obbligo” di indossare la mascherina dalle 18 alle 6? Multando intere città? Con quali uomini? (molti vigili urbani sono a loro volta in ferie). Il governo ha la forza, la volontà, la capacità di attuare i propri editti? E di notte, alle 4,25 ad esempio, si vede al buio se un passante indossa la maschera? Sai che assembramenti, in città, alle 4,25…
Le nuove regole, si dice, saranno valide da oggi almeno fino al 7 settembre. Poi si vedrà. Nel frattempo, io – cartesianamente – “larvatus prodeo”; del resto, se voi foste uno dei pochi vigili al lavoro, fra un gruppo di giovani baldanzosi e palestrati che procede senza maschera e un vecchio docente in pensione, chi multereste? Ci siamo capiti…
Il secondo post, del 27 agosto 2020, commentava una nuova creazione terminologica, partorita dalla fantasia lessicale della ministra dem ai trasporti Paola De Micheli. Il nuovo vocabolo era “gruppo abituale”, con riferimento ai compagni di classe, equiparati così ai “congiunti”. L’intento era quello di consentire l’eliminazione del distanziamento sui mezzi pubblici, favorendo così il trasporto di un maggior numero di ragazzi (in vista dell’imminente riapertura delle scuole).
Citando anche un divertente articolo di Stefano Massini su “Repubblica”, che proponeva come esempio la vita di un qualunque Mario Rossi (destinato a passare dal “nucleo familiare” al “gruppo abituale” agli “affetti stabili” ai “congiunti”), ponevo alcune domande ispirate dal buon senso comune.
Infine segnalavo l’ennesima patata bollente per il Comitato tecnico scientifico, che si dichiarava disponibile ad aumentare la capienza dei mezzi pubblici in vista della riapertura delle scuole, ma in realtà dimostrava di non avere la minima idea di come farlo. E di fronte alla dichiarazione del dem Stefano Bonaccini (“sul trasporto pubblico locale si rischia il caos”) divagavo sull’abituale convivenza col caos in vaste aree del Paese, riferendo anche un aneddoto personale (un autista di bus AST secondo il quale “a Palermo c’è il coàs”…).
25) 27.08.20
IL MINISTRO, IL GRUPPO ABITUALE E IL “COAS”
Le innovazioni lessicali che l’emergenza coronavirus continua a produrre in Italia sono davvero straordinarie e imprevedibili. Dopo gli “affetti stabili” e i “congiunti”, dopo le “rime buccali”, dopo l’alluvione di termini anglosassoni (“lockdown”, “droplet”, “screening”), dopo gli slogan dell’anno (“andrà tutto bene”), ecco una nuova creazione terminologica, stavolta partorita dalla fantasia della ministra dem ai trasporti Paola De Micheli.
La ministra infatti introduce il concetto di “gruppo abituale” a proposito dei compagni di classe, equiparandoli così ai “congiunti”; questa nuova definizione avrebbe il merito (l’uovo di Colombo!) di consentire l’eliminazione di ogni distanziamento nei mezzi pubblici, favorendo il trasporto di un maggior numero di ragazzi.
Benissimo! Si otterrebbe così, con due parole, la miracolosa trasformazione della “res”, del fatto oggettivo, in qualcosa di “altro”, definito diversamente e già così geneticamente mutato.
Sembrerebbe cosa sorprendente, ma non lo è, perché nel corso dei secoli (ah se si studiasse di più la Storia in questo Paese…) i governi si sono sempre ingegnati di trovare “definizioni” che millantassero cose diverse dalla realtà, mimetizzandole e confondendole (si pensi alla litote della “non belligeranza” dell’Italia nel 1939, all’eresia matematica delle “convergenze parallele”, alla “austerity” durante la crisi petrolifera, ecc. ecc.).
A proposito del neonato concetto di “gruppo abituale”, Stefano Massini su “Repubblica” propone come “exemplum” la vita di un qualunque Mario Rossi:
«Basta partorire una definizione, e ogni incognita si scioglie come neve al sole, per cui d’ora in poi l’appartenenza alla stessa classe si tradurrà in tutta una serie di prerogative anche al di fuori del portone scolastico. […] Ipotizziamo un cittadino di nome Mario Rossi. Dagli zero anni all’inizio dell’età scolare, Mario rientra nella categoria “nucleo familiare”, e nessuno può separarlo da genitori, fratelli e sorelle (inviterei a specificare che anche le babysitter e gli animali domestici rientrano nel suddetto perimetro). Dopodiché, di compleanno in compleanno, Mario procede verso il primo traguardo, ovvero il novello “gruppo abituale”. L’importanza pedagogica di questo livello è davvero essenziale, trattandosi di un autentico debutto sociale extra-familiare. Vi era sfuggito? È un passaggio vitale: in questa fase, fino all’esame di maturità, Mario sommerà alla sua dimensione domestica anche una contiguità con estranei, resi “gruppo” dalla comune frequentazione dell’aula. Ma andiamo avanti, perché appena Cupido scoccherà la freccia, Mario si prenderà una cotta, non necessariamente per una girlfriend della propria classe. Dunque? Vogliamo inibirne l’amoroso slancio? Nossignore, non sia mai. E infatti è pronta la categoria “affetti stabili”, a cui Romeo e Giulietta potranno accedere dopo un minimo di frequentazione comune […] Detto questo, se Mario e la sua amata si vorranno davvero bene, potranno convolare a nozze entrando nell’ulteriore sfera dei “congiunti”. In classe (pardon, davanti al “gruppo abituale”, gli insegnanti avranno agio di illustrare cotanto prodigio usando per esempio “I promessi sposi”, la cui trama si può ben sintetizzare come il tentativo dei signori Tramaglino e Mondella di passare dalla categoria “affetti stabili” a quelli “congiunti”. È così semplice, così lineare. […]. Franz Kafka l’aveva raccontato un secolo prima del Covid».
Ovviamente, il buon senso (elemento scomodo e ignoto a molti dei nostri politici) induce a porsi delle legittime domande: 1) chi controllerebbe, nel mezzo pubblico, che un assembramento di ragazzi costituisca un “gruppo abituale” e non sia invece frutto di un’aggregazione momentanea? 2) che senso ha, instaurato il concetto di “gruppo abituale”, teorizzare su distanziamenti in classe, banchi monoposto (di cui 435.118 roteanti), mascherine non abbassabili?
Il CTS (Comitato tecnico scientifico) si trova di fronte l’ennesima patata bollente: si dichiara (deve dichiararsi) disponibile ad aumentare la capienza dei mezzi pubblici in vista della riapertura delle scuole, ma non ha la minima idea di come farlo. Su questo si stanno dilaniando Regioni e Governo, dato che i governatori rilevano che il distanziamento di un metro a bordo porterebbe i mezzi pubblici a viaggiare al 50-60% della capienza; si mira a raggiungere almeno l’80% e il dem Stefano Bonaccini (presidente dell’Emilia Romagna e della Conferenza delle Regioni) ha dichiarato: “Se non si interviene in questi giorni chiarendo i limiti delle capienze sul trasporto pubblico locale si rischia il caos”.
Forse Bonaccini (che si rivolge a un esecutivo in parte formato da esponenti del suo stesso partito) non sa che in molte parti d’Italia il “caos” non si rischia, ma “c’è”. C’è da sempre, ad es., in Sicilia, dove l’automobile è mezzo imprescindibile e fondamentale, anche perché mezzo di trasporto “privato”, quindi ritenuto affidabile. I trasporti pubblici, invece, come tutto ciò che nell’isola è pubblico, sono affidati alla Provvidenza divina, al caso, agli influssi astrali; inoltre, da queste parti, ciò che è pubblico è pirandellianamente di tutti, quindi di centomila e quindi di nessuno: e nessuno è tenuto ad averne cura.
Una volta aspettavo invano da oltre un’ora, a Bagheria, l’autobus dell’AST per tornare a Palermo. Quando infine si materializzò il bus proveniente da Palermo, alla richiesta degli utenti su cotanto ritardo, il guidatore proclamò: “A Palermo c’è il coàs!”.
Ecco: il coàs. Qui, in campo di trasporti (e non solo…) siamo condannati al coàs, è il nostro “modus vivendi”. Già normalmente gli autobus a Palermo sono pochi e spesso si guastano irrimediabilmente senza poter essere sostituiti, il personale è insufficiente, le corse sono rare ed efficienti (diciamo così…) solo in pochi percorsi; quanto ai tanto sbandierati, elegantissimi e limitatissimi tram, attualmente collegano solo alcune zone periferiche partendo da capolinea piuttosto decentrati, girando spesso desolatamente vuoti e finendo vittima delle sassate di benvenuto quando approdano in questi quartieri dimenticati dalle istituzioni.
Non scoraggiamoci, però: la ministra De Micheli ci indica la via maestra per risolvere ogni problema. Se non sappiamo più che fare, inventiamoci un nuovo termine per definire le stesse cose, chiamiamole in un altro modo, mascheriamole con eufemismi seducenti. Potremo così sconfiggere il coàs e vivere tranquilli, nel cantuccio rassicurante del nostro “gruppo abituale”: il gruppo fantozziano dei cittadini malgovernati.
Riporto infine il post del 1° settembre 2020, intitolato «Un vocabolo al giorno: “aerosolizzazione”». Il termine “aerosolizzazione” rientrava perfettamente nel clima di fervida “crescita lessicale” favorito dall’epidemia; ma deploravo l’ennesimo uso di una comunicazione di massa “selettiva”, destinata a risultare incomprensibile ai più.
26) 01.09.20
UN VOCABOLO AL GIORNO: “AEROSOLIZZAZIONE”.
Leggo su “Repubblica” di oggi che il Comitato Tecnico Scientifico ha scritto, a proposito della scuola primaria, che “per favorire l’apprendimento e lo sviluppo relazionale, la mascherina può essere rimossa in condizioni di staticità con il rispetto della distanza di almeno un metro e l’assenza di situazioni che prevedono la possibilità di aerosolizzazione (es. canto)”.
Ecco, ho raggiunto il mio obiettivo quotidiano (“nulla dies sine linea” è il mio motto da sempre); ho appreso un vocabolo nuovo, “aerosolizzazione”. Questa crescita lessicale per ora mi capita continuamente, come ho già avuto modo di sottolineare; basti dire che, fino all’anno scorso, avevo sempre sentito parlare di “disinfestazione” e non di “sanificazione”: le scuole spesso, pur di favorire i “ponti” vacanzieri, organizzavano la “disinfestazione” dei locali; ma ora non basta più, di fronte a cotanta emergenza si deve “sanificare”, non “disinfettare”.
Si badi bene: qui non discuto l’esistenza e la scientificità del termine “aerosolizzazione”, derivabile facilmente da “aerosòl” (“liquido nebulizzato in un mezzo gassoso” come dice il vocabolario); ma disapprovo la pervicace volontà dei comitati scientifici, degli organi politici e amministrativi, degli esperti o presunti tali, dei “comunicatori” mediatici, di “stupire” l’uditorio, di colpirlo con terminologie inedite e misteriosamente fascinose, con l’evidente risultato (intenzionale) di selezionare il numero di coloro che possono fruire dell’informazione.
Ora, una comunicazione “selettiva” implica il preciso disegno di far avvertire alla “massa” il suo divario da chi detiene le redini della comunicazione. Parlare “chiaramente” alla gente invece viene ritenuto per lo meno controproducente, anche perché (diciamola tutta) chi vuole e chi può – nel marasma attuale – dire le cose così come stanno?
Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, aveva segnato la via maestra della comunicazione “ermetica” nei famigerati collegamenti televisivi delle ore 18 durante il lockdown, fornendo impareggiabili dimostrazioni di un “trobar clus” inavvicinabile dalle persone di media cultura. Ora questa strada è condivisa da altri “esperti”, che – di fronte alla difficoltà oggettiva di dire pane al pane e vino al vino – hanno pensato bene di arroccarsi nella strada della comunicazione “alta”; e chi capisce capisce… Come diceva il battello ubriaco di Rimbaud, “non mi curavo più di avere un equipaggio”.
Un’ultima considerazione; come si è visto, come esempio di “aerosolizzazione” nella scuola primaria viene citato il canto. Ora, a parte la crudeltà di impedire al canto ai bambini (e più in generale a tutti), che cantando si “aerosolizzi” il prossimo è stata per me una scoperta ancor più sorprendente. E temo che, di questo passo, i cantanti potrebbero essere definiti “aerosolizzatori”. Rischiamo concretamente che il prossimo festival di Sanremo sia ribattezzato “Festival dell’aerosolizzazione italiana”.