Un anno di Covid / XII

Continuo a riproporre qui alcuni post da me pubblicati l’anno scorso su Facebook in occasione della pandemia.

Inizio da un post del 20 ottobre 2020, in cui commentavo i tantissimi neologismi che (purtroppo) avevamo dovuto imparare nel triste periodo che stavamo vivendo; e non potendo citarne tutti, ne ricavavo un significativo decalogo.

33) 20.10.20

I NEOLOGISMI DA CORONAVIRUS

Fa impressione pensare quanti vocaboli nuovi abbiamo dovuto conoscere quest’anno, a causa della pandemia in atto; e se pensiamo a quello che sapevamo e dicevamo un anno fa di questi tempi, il divario è abissale e sconcertante.

Per fornirne un esempio, elenco qui di seguito solo dieci “neologismi”, in ordine alfabetico; ma in realtà ce ne sarebbero altri ancora…

1) CONTACT TRACING – È uno degli innumerevoli termini anglosassoni che vengono sistematicamente usati al posto di eventuali termini italiani, forse anche perché (come scrive oggi Stefano Bartezzaghi su “Repubblica”) un vocabolo inglese “fa pensare a qualcosa di totalmente inedito, non paragonabile a esperienze già note” e inoltre “appartiene alla lingua a cui abbiamo subappaltato, e non da oggi, la nostra terminologia tecnica”. Fatta questa premessa, “contact tracing” sono le indagini epidemiologiche che si fanno per risalire ai contatti dei singoli casi di positività al coronavirus; ma un anno fa, “tracciare i contatti” sarebbe stato certo interpretato diversamente (controllare gli amici sui social? stare attenti a che cosa si toccava? guardarsi da nuove relazioni?).

2) DAD – La famigerata “didattica a distanza” è stata espressa da questa sigla, che si è aggiunta alle innumerevoli altre sigle cui il mondo della scuola era già assuefatto da decenni (cfr. PON, POR, POF, BES, DSA, MIUR, ecc. ecc.). Un anno fa l’avremmo forse intesa come “didattica anti-dolorifica” o come “demolizione alunni demotivati”; ora sta peraltro evolvendo in DID (“didattica integrata digitale”) da adottare in modalità complementare  alla  didattica  in  presenza, indicando così il metodo “a targhe alterne” (metà in classe, metà a casa) nella gestione dei gruppi-classe.

3) DPCM – Sigla assolutamente inedita e costituzionalmente sorprendente; i “decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri” sono diventati un’alluvione, sostituendosi sia al dibattito parlamentare, sia agli obsoleti “decreti-legge” dei governi del passato, assumendo la configurazione di una decisione calata dall’alto per motivi di necessità e di urgenza dal leader che si è trovato (e chi glielo avrebbe detto prima del giugno 2018?) a gestire la peggiore emergenza capitata nel dopoguerra al nostro Paese. Si nota solo un certo progressivo imbarazzo nell’uso di questo inedito strumento; tanto è vero che l’ultimo DPCM (per ora) della serie, trasmesso rigorosamente alle 21,30 dopo la fine dei “Soliti ignoti” su RaiUno (come al solito, ma sarà un caso), era meno perentorio e determinato, mostrando un presidente del consiglio mascherato di nome e di fatto.

4) IMMUNI – Un anno fa era un banale aggettivo: si poteva essere immuni da certe tendenze o dall’influenza annuale; tutt’al più l’immunità era, un tempo, parlamentare, mentre non si sapeva che potesse essere “di gregge”. Oggi “Immuni” è il nome di una app scaricata da 9 milioni di persone, che però risultano poche, sicché è finora è riuscita a segnalare appena 900 positivi al virus; a questo proposito, su “Repubblica” di oggi, Alessandro Vespignani, ricercatore all’Università di Bostin, dichiara che la app “non va”, soprattutto a causa del mancato “supporto post vendita”; in altre parole, manca la possibilità – nel caso jettatorio di una segnalazione – di contattare velocemente un medico o una struttura sanitaria e “senza queste cose la app fa addirittura paura; ti arriva una notifica di un contatto a rischio e sei solo”.

5) LOCKDOWN – La parola più odiata e temuta; per esorcizzarla, Corrado Augias ha proposto di sostituirla con “clausura” (che in italiano però indicherebbe un atto volontario) più che con “confinamento” (di cupa ascendenza fascista). Dato di fatto inoppugnabile è che un anno fa nessuno di noi si sarebbe immaginato di dover fare i conti con questo cupo vocabolo anglosassone, che evoca ormai giornate sedentarie, flashmob sui balconi, frettolose uscite per fare la spesa o buttare l’immondizia, collegamenti Skype/Zoom/Meet con i propri cari, fiduciosi proclami (“andrà tutto bene”… e stiamo ancora aspettando) e – più di tutto – crisi nera di tutte le attività economiche.

6) MASCHERINE – Un anno fa, alla gran massa delle persone ricordavano prevalentemente il carnevale, erano svago per i bambini, divagazione ludica in alcune feste danzanti, concessione trasgressiva; l’uso sanitario era monopolio dei medici e degli infermieri. Ora invece (e chi ce lo doveva dire?) siamo mascherati tutti, conosciamo la distinzione fra mascherine chirurgiche e mascherine FFP1, FFP2 e FFP3 con o senza valvola. Circolano persino mascherine “trendy” colorate, decorate nei modi più strani e con varie iscrizioni (Salvini ne ha una con la scritta “Trump”). E ogni giorno si legge sul giornale o sui social che molti cittadini (nell’assenza di custodi solerti) si autoproclamano controllori e invitano i negligenti a mascherarsi (rischiando di essere presi a cazzotti o a parolacce). Un anno fa, un intero Paese, un mondo intero mascherato era lontano anni luce dal nostro immaginario collettivo.

7) ONDATA – Il termine, un anno fa, avrebbe evocato le ondate del mare in tempesta e i cavalloni da cui guardarsi nelle spiagge. Ora di “ondata” si parla solo per numerare le recrudescenze del coronavirus, giunto alla “seconda” delle sue ondate; e si deplora che non ci si sia “preparati” meglio a questa seconda fase (ma “la fase 2” non era stata, invece, a maggio, un alleggerimento della fase 1?). Occorrerebbe un “bollettino del mare” che quantificasse meglio la possibile durata di questa tempesta, che a quanto pare dovrebbe cessare con un vaccino di cui si parla sempre senza avere nessuna certezza, neanche che sia uno solo e che serva in modo radicale e definitivo…

8) SANIFICAZIONE – Un anno fa tutt’al più si faceva la “disinfestazione” dei locali; le scuole e gli uffici pubblici erano specializzate nel “disinfestarsi” soprattutto in occasione dei “ponti” lavorativi. Oggi evidentemente la “disinfestazione” non basta più e si ricorre alla “sanificazione” di cose e persone, che deve o dovrebbe garantire di vivere “in sicurezza” (altra espressione tanto inflazionata quanto sostanzialmente vacua).

9) SMART WORKING – Altro termine anglosassone che un anno fa alla maggior parte di noi era ignoto; a quanto pare inventore ne fu un tale Jack Nilles, scienziato americano, che nel 1973 coniò il termine “teleworking” in occasione della prima grande crisi petrolifera, allorché si prospettò il bisogno di ridurre gli spostamenti con mezzi che si servissero del petrolio. Oggi lo “smart working” si è diffuso in modo capillare e anzi in più settori si prospetta un suo mantenimento anche quando l’attuale emergenza cesserà; è in corso dunque un radicale cambio di abitudini e di mentalità, che sta già causando conseguenze notevoli sull’indotto (ad es. i locali di ristorazione, soprattutto i fast food che lavoravano molto grazie alla “pausa pranzo” di molti lavoratori, o i trasporti pubblici e privati).

10) TAMPONI – Che si intendeva per “tampone” un anno fa? A leggere il vocabolario Gabrielli, era “un batuffolo, falda di cotone, garza o altro materiale sterile e assorbente, destinato a vari usi medici o di igiene” (es. “ha fermato il sangue della ferita con un tampone”); il termine era usato anche in senso metaforico, come “misura adottata a titolo provvisorio per fronteggiare un’emergenza” (es. “soluzione-tampone”, “legge-tampone”). E certo è triste constatare che oggi l’uso metaforico è diventato quanto mai “letterale”, dato che i “tamponi” fronteggiano questa emergenza senza fine, ma ne diventano anche emblema preoccupante (si pensi alle file chilometriche ai drive-in; e si potrebbe aggiungere come corollario che ai drive-in, ove esistevano, si andava una volta per ben altri motivi…).

Chiudiamola qui (ma altri vocaboli potremmo aggiungere, es. termini come “MES”, “Recovery Fund” – che non si pronuncia “fàund”!! -, “triage” e “pre-triage”, ecc.).

Certo, fa impressione la svolta epocale che quest’anno ha impresso alla vita di tutti noi; e miglior augurio non riesco a farmi, e a fare a tutti, se non che fra un anno non ci sia toccato di imparare e di utilizzare una pari messe di tanti nefasti neologismi.

La divisione dell’Italia in tre fasce di rischio (5 novembre 2020)

Il 5 novembre 2020 il presidente del consiglio Giuseppe Conte annunciò un nuovo DPCM che prevedeva la divisione del territorio italiana in tre parti in base alla diffusione del Covid: Calabria, Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta erano in zona rossa, Puglia e Sicilia in zona arancione, il resto d’Italia in zona gialla.

Conte difendeva così la propria scelta di non adottare un provvedimento unico per tutto il Paese: “Se lo avessimo fatto avremmo ottenuto un duplice effetto negativo, non saremmo intervenuti con misure veramente efficaci dove c’è un maggior rischio e avremmo imposto misure irragionevolmente restrittive dove la situazione è meno grave”.

In questa nuova realtà pluricromatica, mi parve automatico ispirarmi al celebre passo “De bello Gallico” di Cesare che parlava della divisione della Gallia in tre zone. Ed ecco quello che, in un latino rigidamente classico, ne è venuto fuori… (se qualcuno avesse dei problemi con la traduzione, la chieda direttamente all’ex premier, che ora ha sicuramente più tempo per rispondere).

34) 05.11.20

CAIUS IOSEPHUS COMES – “DE BELLO ITALICO” – incipit

Italia est omnis divisa in partes tres, quarum unam (rubram) incolunt Langobardi, Pedemontani, Calabri et Augustani, aliam (luteam) Siculi et Apuli, tertiam (flavam) aliae gentes Italicae. Hi omnes lingua, institutis, legibus atque contagionibus inter se differunt. Siculos a Langobardis Musumecius gubernator dividit.

Horum omnium felicissimi sunt Campani, propterea quod a clausura atque calamitatibus aliarum provinciarum longissime nunc absunt minimeque ad eos virologi saepe commeant, neque ea quae ad deprimendos animos pertinent important.

Proximique sunt Latinis, qui trans Tiberim incolunt, quibuscum continenter contentiones gerunt; Delucus gubernator fere cotidianis proeliis cum Iosepho Comite contendere simulat, sed omnia quae vult semper adipiscitur.

Apud Italicos longe nobilissimi fuerunt consules Zingarettus et Di Maius, qui – regni cupiditate inducti – superiore anno coniurationem rubram et fulvam fecerunt, Salvinumque eiecerunt et rem publicam rexerunt. Civibus omnibus nunc persuaserunt ut domi manerent, ad morbum vitandum. His rebus fit ut et minus late Italici vagentur et minus facile consulibus Romanis bellum et Solana lycopersica [“pomodori”] inferre possint; ergo Italici cives, domo exeundi cupidi morbique taedio affecti, Comitis plurima decreta timent nec iam ea patienter ferre possunt.

L’ultimo dei tre post che ripropongo oggi risale al 13 novembre 2020, un “venerdì 13” nerissimo per un’Italia che stava drammaticamente vivendo la “seconda ondata” della pandemia. Le vaccinazioni erano ancora una prospettiva lontana, il sistema sanitario (soprattutto al Sud) stava collassando, la situazione generale era confusa e preoccupante. Mi chiedevo dunque: “In questa Italia lacerata e stremata, basta ancora, basterà la nostra capacità di resilienza? Basterà che la maggioranza delle persone siano ragionevoli e responsabili, non negazioniste, non ribelli per principio alle regole, pazienti all’infinito?”

35) 13.11.20

Il venerdì 13

Da sempre il giorno “venerdì 13” ha destato preoccupazione e suscitato scongiuri in tantissime persone, più o meno superstiziose; basti dire che questa fatidica data ha persino ispirato una nota saga horror. E proprio in una saga degli orrori sembra di vivere oggi, venerdì 13 dell’interminabile anno 2020.

Basti a dimostrarlo qualche considerazione, opinabile come tutte le considerazioni, ma dettata da alcune constatazioni di fatto.

1) Ieri il ministro degli esteri Luigi Di Maio, in un messaggio video (caratterizzato dalle solite inguardabili e orribili barre verticali laterali “da telefonino”) ha definito “fuori controllo” la situazione sanitaria a Napoli e in Campania. Ha ricordato il paziente trovato morto nel bagno all’ospedale Cardarelli, le persone curate in auto nei parcheggi, le altre che muoiono in ambulanze del 118 a cui non viene assegnata la destinazione, le altre ancora che neanche vengono prelevate da casa nonostante le continue chiamate; conseguentemente, ha chiesto al governo di intervenire in modo più deciso.

Di Maio ha riconfermato in questa occasione la consueta scissione esistenziale fra le due persone che convivono in lui: il leader (reale o presunto) del movimento degli Zainetti e il ministro degli esteri del governo in carica (nonché vicepresidente e ministro dello Sviluppo Economico nel passato governo di diversa gradazione cromatica).

Certo, una dichiarazione come quella citata non è incoraggiante, perché si ha l’impressione di un esecutivo lacerato, sdoppiato e contraddittorio, in cui non solo la mano sinistra non sa cosa fa la destra, ma – se lo sa – la contesta. Che un membro del governo lamenti l’inazione del governo cui appartiene, è per lo meno paradossale; possibile che in nessuna delle riunioni del consiglio dei ministri siano venute fuori le perplessità espresse ieri? O si deve pensare (ed è ipotesi non peregrina) che certi messaggi “coram populo” siano indirizzati non al governo, non alla soluzione reale dei problemi, bensì a calcoli “di immagine”, a desideri di creare consenso, a intenti elettoralistici a breve o lungo termine, a un populismo duro a morire?

2) Il 21 maggio scorso, alla fine del lungo lockdown primaverile, il ministro Speranza dichiarava: “Il Ministero della Salute, in piena sintonia con il Comitato tecnico-scientifico, continuerà ad essere al fianco del mondo dell’Istruzione, per far sì che il rientro nelle aule avvenga a settembre e in piena sicurezza”. Anche Lucia Azzolina, ministro dell’Istruzione, aveva ribadito più volte, prima del 14 settembre, che il rientro a scuola sarebbe avvenuto immancabilmente e “in piena sicurezza”: ad es. il 20 agosto, ai microfoni del TG 1, ribadiva: “L’apertura della scuola non è a rischio. È una priorità assoluta per il Paese e il Governo. La preparazione è molto complessa, ma siamo più pronti rispetto a quando la pandemia è scoppiata».

L’evidenza dei fatti è stata esattamente l’opposto. Non erano “pronti” né i banchi (dei famosi “monoposto”, a rotelle o no, si sono riperse le tracce), né gli organici, né i locali, né (tanto meno) il raccordo con il sistema dei trasporti pubblici; e se le scuole potevano apparire “sicure” al loro interno, tutti i loro infiniti e ingestibili contatti con l’esterno sono risultati e risultano ingestibili, pericolosi e a volte micidiali. Da qui il caos assoluto attuale, fra città che chiudono di loro iniziativa le scuole dell’obbligo (come Palermo) e regioni dove le mutevoli decisioni su aperture e chiusure rimbalzano fra governo, governatore locale e TAR (come in Puglia).

3) Ci sarebbe anche altro: gli orari caotici di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, i divieti di “stazionamento” per le strade del centro, le “raccomandazioni” che non diventano “obblighi”, le mancate o rare sanzioni ai trasgressori, l’incapacità palese di dare indicazioni chiare e univoche (basti ricordare il numero esorbitante e assurdo di “parametri” – ben 21 – in base al quale dividere cromaticamente le regioni italiane), la palese impreparazione e improvvisazione in troppi ambiti (si pensi al vaccino anti-influenzale introvabile), la difficoltà (o incapacità?) di programmare opportunamente gli interventi a breve e lungo termine (ad es. le modalità di arrivo, conservazione, distribuzione dei fantomatici e risolutivi vaccini).

Conclusione: in un’Italia sempre più parcellizzata, suddivisa in satrapie e sottosatrapie, in cui il governo, pur di evitare un nuovo devastante lockdown generalizzato, preferisce rimandare le decisioni (ad es. sulla Campania) o delegarle agli organi locali (nella speranza di allargare a tutti le comprensibili esasperate contestazioni), in un’Italia stanca e confusa anche per le notizie sui vaccini (ove le speranze, appena sorgono, vengono smentite, dilazionate, ridimensionate), in un Paese vicino alla crisi di nervi, con un’opposizione in cui Berlusconi sembra diventato la voce ecumenica della conciliazione mentre altri non sanno far altro che ripetere stancamente le parole che tutti vogliono sentirsi dire (azzeramento delle tasse, risarcimenti per tutti – ma non dal MES! -, richieste di condono tombale, ecc.), in questa Italia lacerata e stremata, basta ancora, basterà la nostra capacità di resilienza? Basterà che la maggioranza delle persone siano ragionevoli e responsabili, non negazioniste, non ribelli per principio alle regole, pazienti all’infinito?

Sulla “maggioranza silenziosa” e rassegnata molti governi, anche mediocri, hanno basato la loro sopravvivenza; ma c’è un limite al silenzio e alla pazienza, c’è un punto in cui la corda troppo tirata si rompe.

Occorrerebbe pretendere una leadership autorevole, ferma, non oscillante, non contraddittoria, equa, coerente, prudente nelle dichiarazioni, efficace nelle decisioni e nella loro attuazione, attenta esclusivamente al bene del Paese e non ai consensi immediati.

Si chiede troppo? Allora, per lo meno, auspichiamo che – per quanto è possibile – si parli meno (e meno a sproposito), non ci si divida su tutto e si agisca con fermezza e con criterio, presto e bene.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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