Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, “matusa” era, nel gergo giovanile, una persona “anziana” mentalmente, a prescindere dall’età effettiva.
Il termine gergale era un diminutivo di “Matusalemme”, con riferimento al noto patriarca antidiluviano citato nel libro della Genesi e morto all’età di 969 anni. Il “matusa” era, per i ragazzi di allora, travolti dal vortice della contestazione giovanile, un adulto depositario di idee e concezioni ormai obsolete, superate, se non estinte.
Persino Eugenio Montale utilizzò questo termine nella poesia “Il terrore di esistere” (nella raccolta “Diario del ’72): “Il terrore di esistere non è cosa / da prender sottogamba, anzi i matusa / ne hanno stivata tanta nei sottoscala / che a stento e con vergogna potevano nascondervisi”.
Il vocabolo “matusa” approdò anche nei vocabolari ufficiali: il Gabrielli lo presenta come termine “gergale/scherzoso” e lo spiega con “persona ritenuta anziana o di idee retrograde, superate”.
In realtà solo chi ha vissuto gli anni Sessanta si può rendere conto davvero della frattura epocale che in pochi anni si verificò fra il mondo di prima e quello della “beat generation”; nella mia vita non ricordo nessun altro periodo altrettanto ricco di “novità” radicali, a 360°, in tutti i settori dell’esistenza umana. Era facile, dunque, per i giovani di allora, entusiasmarsi per un cambiamento di cui si sentivano ed erano i protagonisti, additando invece con l’epiteto polemico di “matusa” i “laudatores temporis acti”, i passatisti incurabili, gli “antiquati” che non stavano al passo con l’incalzare dei tempi.
Questo stato d’animo era espresso anche nelle canzonette, come quella del 1966 dei Rokes intitolata “Ma che colpa abbiamo noi”: “Vediamo un mondo vecchio che / ci sta crollando addosso ormai. / Ma che colpa abbiamo noi? / Sarà una bella società / fondata sulla libertà; / però spiegateci perché / se non pensiamo come voi / ci disprezzate; come mai? / Ma che colpa abbiamo noi?”.
Sono passati cinquant’anni da allora; e, come sempre succede nella storia umana (ah, se qualcuno la conoscesse e la studiasse, la storia!), la nuova generazione torna a contrapporsi a quella antica, trovando nuovi termini per definirla e allontanarla.
“OK, Boomer” è la risposta-reazione che molti giovani di oggi indirizzano ai vecchi “matusa” della mia età. Infatti con queste due parole i membri della “Generazione Z” (nati più o meno tra la fine degli anni ‘90 e il 2009) mandano graziosamente a quel paese i “Baby boomer”, cioè quelli come me, nati tra la metà degli anni ‘40 e ‘60.
Questa espressione, nata nel 2018, è anche un “meme” nato su TikTok e su Twitter, è finito sul New York Times (in un articolo della giornalista Taylor Lorenz) e ormai è applicato da moltissimi giovani in tante possibili situazioni.
C’è stato anche un episodio rilevante in Nuova Zelanda nel novembre 2019: qui la deputata venticinquenne Chlöe Swarbrick, candidata “millennial” alla leadership del Partito Verde, ha zittito con un irridente “Ok boomer” un suo anziano collega che le si contrapponeva, in tono paternalistico, riguardo al tema della crisi ambientale.
Le nuove generazioni, come tutte le giovani generazioni prima di loro, ma con acredine maggiore e con assoluta mancanza di dubbi, ritengono che i “boomers” abbiano rovinato il pianeta, lasciando loro in eredità il disastro ambientale e un’irreversibile crisi economica, per non parlare dei virus di ogni tipo e delle sventure che caratterizzano in particolare questo periodo “orribile”.
La generazione dei “boomers” ha dunque vissuto il boom economico e ne ha tratto grandi privilegi, creando però problemi alle generazioni successive: anzitutto alla Generazione X (quella dei quaranta-cinquantenni di oggi) e poi ai “millennial” nati nel nuovo secolo.
In particolare, è diffuso sui social network il risentimento dei più giovani per l’incomprensione dei “boomers” nei confronti di alcuni temi centrali della cultura dei “millennial”, dal dibattito sulle identità (di genere, etniche o legate all’orientamento sessuale) a quello, per esempio, legato al movimento femminista #MeToo.
In definitiva, la sferzante replica “Ok boomer” equivale a espressioni via via sempre più forbite come “ok vecchio, ti calo la testa ma faccio di testa mia” o “parla, parla, tanto non ti ascolto” o “non capisci un c…..*” o “ma vaff….” o “perché non muori presto?”.
Il “boomer”, in questa ottica, diventa l’essenza del “cringe”, altro concetto “memetico” che indica ciò che è “imbarazzante”, obsoleto, improprio.
Il “boomer” è dunque “imbarazzante” nel suo essere “inadatto” alle nuove situazioni, al nuovo mondo che sta nascendo, superato irreversibilmente.
Ovviamente molti “boomers” non sanno di esserlo e, come hanno fatto tutte le generazioni “anziane” di ogni tempo, inorridiscono di fronte alle provocazioni giovanili, non ne capiscono le istanze di base e si arroccano in una strenua difesa del loro “modus vivendi”.
Ma fino a che punto è fondata la critica delle nuove generazioni? Come si legge nel sito www.nextquotidiano.it., i “millennials” di oggi “hanno vissuto la quasi totalità della loro maturità all’interno di una prospettiva di crisi economica senza fine, sono più poveri, sono senza prospettive, hanno lavori meno appaganti, vivono nel tempo determinato, nel part time e nel lavoro a chiamata. Una generazione No Future ben oltre il movimento punk del Settantasette. Tutte cose che succedono anche a nati in altre decadi, senza dubbio, ma non in maniera così diffusa quanto i temuti Millennials. […] Giornali, scrittori, boomer hanno fatto diventare Millennial sinonimo di un insulto, per bamboccione, riducendo una generazione ad una macchietta ed uno stereotipo: quello di chi si guarda costantemente il proprio ombelico e che non è in grado nemmeno di farsi il letto da solo”.
In questa prospettiva, “boomer” non è solo chi è nato fra il 1946 e il 1964, ma è chiunque – a prescindere dalla sua età anagrafica – ritenga che lo stato attuale delle cose (con le discriminazioni razziali, il sessismo, la sperequazione della ricchezza, la distruzione degli ecosistemi) non sia ingiusto ma sia anzi l’unico e inevitabile modo di concepire la società.
Il discorso, come si vede, è molto complesso e richiederebbe un dibattito ben più ampio e articolato; mi limito perciò a soli due spunti conclusivi di riflessione.
1) Io, indubbiamente “boomer” per età (sono nato nel remoto 1954), ho studiato sempre la storia con enorme interesse e passione, constatando spesso nelle sue vicende la ripetizione avvilente degli stessi errori in ogni epoca, la testarda riproposizione di schemi che sembrano nuovi ma del tutto nuovi non sono mai (se non per chi non conosce nulla del passato). Non a caso ho iniziato parlando di “matusa”: in tutta la mia vita ho assistito alle contrapposizioni generazionali e anzi, dall’osservatorio privilegiato del mio lavoro a scuola, ho seguito gli adolescenti dal 1979 al 2019, parlando con loro, chiedendo, informandomi, dando insegnamenti e ricevendone. Ora, da anziano, posso dire come Solone: “Invecchio imparando sempre qualcosa”. Non ho mai negato a nessuno la mia disponibilità ad ascoltare e quando le cose che ascoltavo differivano dalle mie opinioni, ho sempre ragionato su queste diversità di pensiero, ho discusso apertamente, ho trovato nel confronto un’ ccasione di arricchimento. Non sono più a scuola, purtroppo; e mi manca quindi la possibilità di sentirmi dire “OK boomer” da qualche alunno più coraggioso o meno educato: ma sulla mia condizione anagrafica rifletto ogni giorno e continuerò a farlo finché sarò lucido mentalmente. Ascolterò, dunque, sempre: e risponderò sempre alle sollecitazioni, anche quando sono presentate in modo brusco e “provocatorio”.
2) Che cosa diranno, fra cinquant’anni, i ragazzi del 2070 a questi “millennial” diventati a loro volta non “matusa”, non “boomer”, ma “chissàcomer”? Di che cosa li accuseranno? Li ascolteranno o anche loro diranno “OK” per zittirli e andare avanti di testa loro? Credo che la storia si ripeterà finché esisterà la storia. E speriamo che la generazione dei “chissàcomer” sia più attenta e meno colpevole rispetto alle critiche dei giovani di allora.