Un anno a Lercara Friddi

Trentotto anni fa, il 25 settembre 1985, fui convocato al provveditorato di Palermo per l’assegnazione delle cattedre ai vincitori di concorso di Italiano e Latino nella scuola superiore. In quel momento ero docente di ruolo nella scuola media inferiore (anche qui in seguito al concorso bandito due anni prima) ed avevo insegnato a Bolognetta.

Le convocazioni dei docenti erano (sono?) una prova di resistenza psicologica e fisica non indifferente: anziché alle 8,30 le operazioni iniziarono alle 10,40 e si svolsero con un ritmo lentissimo. Io fui chiamato alle 14,40 (!!); essendo il secondo classificato nella graduatoria regionale, scelsi Lercara Friddi.

L’indomani mattina, giovedì 26, andai a prendere servizio al Liceo Scientifico “Mauro Picone” di Lercara. Percorsi gli interminabili 75 km della strada a scorrimento veloce (definizione ottimistica, in quanto come tutti sanno si tratta di arteria né scorrevole né tanto meno veloce, ma anzi pericolosissima e insidiosa); arrivai a Lercara alle 8,35.

Mi colpì subito la differenza di temperatura: a Palermo, esattamente come avviene in questi giorni, c’era un caldo ancora estivo; a Lercara l’aria del mattino era già frizzante e dovetti rimpiangere il golf di cotone lasciato ottimisticamente a casa. Nel corso di quell’anno scolastico ebbi modo di constatare come il clima di Lercara fosse (almeno allora) simile a quello della pianura padana: innumerevoli volte, lasciando il sole e le temperature miti della costa, trovavamo nell’interno una nebbiolina impalpabile, un’umidità ubiquitaria (che mi costò una botta micidiale di reumatismi a gennaio) e un freddo pungente e costante nei mesi invernali.

Il Liceo scientifico “Mauro Picone” di Lercara Friddi (foto del 1986)

Mi presentai verso le 8,45 in via Giovanni XXIII presso il liceo; fui accolto dal preside incaricato, prof. Antonio Militello, dal segretario Leopoldo Guarneri e dal vicepreside Padre Antonino Todaro, indimenticabile factotum, persona di altissimo livello morale e culturale, vera “istituzione” lercarese che tantissimi ricordano con stima.

Il preside Militello, io e padre Todaro (giugno 1986)

Mi furono assegnate 14 ore di Italiano e Latino nelle classi IV e V B; e dopo pochi minuti, alle 9, feci il mio esordio con un’ora in V B.

Mauro Picone, cui è intestato il Liceo scientifico di Lercara

Subito ebbi modo di capire che molti di quegli studenti venivano a Lercara pendolando dai paesi vicini: Villafrati, Vicari, Valledolmo, Roccapalumba e persino Regalgiòffoli, frazione sperduta che ebbi modo di visitare in seguito (in occasione dei blocchi stradali per la sanatoria edilizia che paralizzarono l’isola nel marzo 1986). Partivano da casa alle 5 o alle 6 di mattina, per usufruire dei pessimi trasporti pubblici siciliani; e tornavano dopo le tre di pomeriggio, riuscendo però a fare i compiti per l’indomani.

Una manifestazione studentesca a Lercara (1986)

Notai subito in quasi tutte le alunne e gli alunni un interesse altissimo, una grandissima voglia d’imparare, un’educazione e una correttezza esemplari. E mi ha fatto piacere ritrovare su Facebook alcune delle mie studentesse di allora, oggi diventate stimate professioniste, che saluto qui con cordialità e stima.

In particolare i 23 alunni di IV B costituivano un gruppo classe unito, vivace, curiosissimo e motivatissimo. Conservo gelosamente, nel mio abissale archivio, l’elenco dei loro nomi, dalla lercarese Clara Abruzzese alla vicariota Maria Liana Zambito, ma anche moltissimi dati sulle loro prove scritte e orali, le loro valutazioni quadrimestrali, i temi assegnati ed anche una poesiola di congedo che rivolsi loro alla fine dell’anno scolastico.

Un biglietto della IV B (a.s. 1985/86)

E tuttavia l’anno scolastico 1985/86 fu per me assai pesante: i 75 + 75 chilometri al giorno erano assai stancanti, anche perché io abitavo allora vicino allo stadio della Favorita e – oltre alla lunga distanza extraurbana – dovevo affrontare il traffico di Palermo, come sempre tentacolare, irresolubile, insopportabile e inestricabile. 

Una delle cose che ricordo con grande affetto sono i colleghi, quasi tutti palermitani, con cui iniziai a viaggiare giornalmente. Uno di noi a turno “portava la macchina”, mentre gli altri lasciavano la loro in cima a via Oreto, dove avveniva il nostro meeting alle 7 di mattina.

Ricordo in particolare, fra loro, la mia cara amica Carmela Volpe Palazzolo (con lei, con suo marito Toti e con i suoi figli siamo da allora fraterni amici), Margherita Bracco e Concetta Milano (tutte e tre, come me, docenti di Italiano e Latino), poi Paola Ciccarello (purtroppo mancata qualche anno dopo prematuramente), Silvana Cogni (di Inglese), Giovanna Caldarone (di Storia e Filosofia), Giuseppe Urso Calè di Ciminna (docente di Francese) e la “baariota” Anna Cavallaro, esuberante docente di Educazione Fisica. Fra i docenti locali c’era il bravissimo prof. Girolamo Cannariato, di Prizzi, in seguito avviato a una brillante carriera politica (diventò senatore).

Ma più di tutti ricordo Costantino Morbitelli, palermitano doc, docente di Disegno e Storia dell’Arte, che oggi purtroppo non è più con noi. Costantino, vagamente simile al cantante Mino Reitano, era di qualche anno più grande di me, “single”, appassionato di pesca (andava ogni pomeriggio alla Cala a gettare invano l’amo), capace di far ridere fino alle lacrime con le sue trovate estemporanee.

Una volta io e lui eravamo nella mia macchina, poco prima di Bivio Manganaro: pioveva, c’era nebbia, la strada era bagnata. Ci seguivano a una certa distanza le colleghe in un’altra vettura. Poco prima del Bivio (flagellato dalla pioggia, avvolto nella foschia, sferzato dal vento gelido), Costantino mi disse: “Fièimmati, fammi scìnniri”. Sorpreso (ma non troppo) lo feci scendere. Mi disse: “Vatinni” e restò in mezzo alla strada, col cappuccio del suo giaccone rosso che lo riparava malamente dal diluvio universale. Io mi fermai un po’ più avanti ed ebbi modo di vedere la scena esilarante che ne seguì: la macchina delle colleghe si avvicinò a 20 all’ora e si trovò improvvisamente davanti Costantino, che emergeva dalla nebbia, si sbracciava e chiedeva passaggio. Lo riconobbero a stento e per poco non lo mettevano sotto!

Nei pressi di Bivio Manganaro (aprile 1986)

Un altro scherzo (crudele, lo riconosco) lo facemmo insieme, io e lui, ai danni di Carmela. Siccome capimmo che Carmela non amava troppo (giustamente) la musica napoletana più “tascia” e coatta, un giorno incaricai Costantino, che viveva nei pressi della stazione centrale, di comprare la musicassetta più tamarra possibile. Lui ne acquistò una di Mario Trevi, che comprendeva capolavori come “Astrignete a me”, “O killèr innammorato” e “O latitante”. Da quel giorno, durante la strada alla volta di Lercara, per circa un’ora di percorso mettevamo immancabilmente a tutto volume queste canzoni, che Carmela ascoltava con un misto di rassegnazione, perplessità e fastidio; tanto più che io e Costantino aggiungevamo lunghi e improbabili commenti sul dramma del popolo napoletano, sui temi dell’emarginazione e della miseria, sugli alti destini della musica partenopea. Il bello è che eravamo serissimi e non facevamo trasparire nulla: Carmela mi ha poi confessato che si era davvero convinta che fossimo due “coatti” irredimibili. Dopo qualche giorno, quando anche noi ci stufammo di sentire roba del genere (“Calzune nire, / giubbotto ‘e pelle, / ‘i songo nu killèr e qualità…”), Costantino, sentendo una di queste canzoni, disse: “Mi sta venendo la pelle d’oca”. Io allora aggiunsi: “Io l’ho fatta sentire a un’oca e le è venuta la pelle d’uomo”. E qui scoppiammo a ridere come pazzi e il gioco si scoprì… Finalmente!

Di Lercara potrei raccontare tante altre cose più o meno futili: le “pantofole”, il pane e la carne acquistati in paese e costantemente presenti nella mia tavola; i pranzi alla “Palma” da Luigi quando c’era riunione; le mie passeggiate nel corso deserto in inverno durante le ore di “buco”; le poesiole e le finte circolari che sfornavo (a imitazione e parodia di quelle vere); le lezioni, con quegli alunni attentissimi e la pioggia battente che allagava le finestre; gli spifferi micidiali; il freddo che penetrava nelle ossa.

Finta circolare con gli auguri di Natale

Ma ero giovane, eravamo giovani, avevamo tanti anni di carriera davanti; e anche quelle tre ore al giorno di macchina le affrontavamo con la forza e l’incoscienza di quegli anni felici.

A casa era un momento difficile. Avevo solo 31 anni e stavo facendo il callo alle vicissitudini della vita. Io e Silvana eravamo sposati da poco più di un anno; mio suocero era gravemente malato e sarebbe poi morto prematuramente nel corso di quell’anno scolastico.

Forse anche per questo, quando andavo al lavoro, riuscivo a distrarmi da quei momenti tristi e ricevevo la forza per affrontare le difficoltà. E a distanza di tanti anni ricordo con gioia e con un po’ di rimpianto quell’anno scolastico a Lercara, come esperienza gratificante e importante nella mia quarantennale attività di docente.

Pranzo di fine anno a Filaga con i colleghi (14 giugno 1986): io in ultima fila in piedi con gli occhiali scuri
Vista di Lercara Friddi

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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