La Policar era un marchio della APS-Politoys fondata nel 1955 con sede a Milano; fu il maggiore produttore di giocattoli italiano fino a metà degli anni ’80. Nel 1963, seguendo la moda americana, la ditta cominciò a produrre piste e macchinine elettriche (“slot cars”).
In occasione del Natale 1965, quando avevo undici anni, i miei genitori mi regalarono una “autopista” Policar. Diventò presto uno dei miei giochi preferiti, in un’epoca in cui le alternative erano per me i soldatini (con relativo Fort Apache), i ciclisti in miniatura (con cui organizzavo Giri d’Italia e Tour de France con tanto di percorso e di chilometraggio), il teatrino di marionette (occasione di spettacolini sconclusionati ma divertentissimi), i cubi da costruzione (con cui facevo di tutto) e la macchina da scrivere (visto che in me l’hobby della scrittura fu piuttosto precoce: conservo dei miei “romanzetti” di avventure varie composti allora).
Nessun videogame, nessuna play station, nessun telefonino, nessun Play Store.
Montavo la pista per terra nella mia camera (o nel salotto, che occupavo militarmente) e iniziavo a telecomandare le macchinine; c’era un pulsante per la regolazione della velocità, con cui miravo di volta in volta a frantumare i miei record. Nella storica data del 25 giugno 1966 riuscii a far compiere 36 giri in un minuto a una delle mie automobiline; il record rimase imbattuto a lungo.
Essendo figlio unico, giocavo in genere da solo; ma a volte mi chiedeva di partecipare mio padre (che si divertiva un mondo) mentre altre volte facevo la gioia dei miei amichetti dell’epoca, con cui organizzavo veri e propri Grand Prix e tornei.
La ditta Policar negli anni ’70 diventò Polistil; intanto io ero cresciuto e lo scatolone della mia leggendaria pista finì in cima a un armadio, iniziando una lenta e dignitosa decadenza. Riuscì a sopravvivere al nostro trasloco in Sicilia nel 1976 e fu collocata in solaio, a Bagheria, in un baule gremito di ricordi paleolitici.
Alcuni anni fa, durante uno dei ricorrenti “sbarazzi” che occorre pur fare in questa nostra esistenza, la ritrovai in quel baule. Dopo aver constatato dolorosamente il decesso della strumentazione, la decomposizione dei binari e il collasso delle macchinine, dopo aver visto la scatola ammaccata, incerottata da plurime operazioni chirurgiche con scotch e mutilata in alcuni punti dalle troppe battaglie sostenute in passato, ho deciso – non senza dispiacere – di procedere alla definitiva sepoltura della gloriosa autopista. Oggi me ne resta solo il ricordo, insieme ad antichi fogli scritti a mano in cui annotavo puntigliosamente i record via via conseguiti con quelle mirabolanti macchinine.
Mia moglie mi racconta che anche a lei il suo padrino di battesimo (evidentemente intuitivo precursore della parità di genere) ebbe l’idea audace di regalare una bella pista Policar; tuttavia fruitore entusiasta del bel giocattolo fu invece mio suocero, il dott. Ernesto, mentre Silvana preferiva evidentemente altri giochi… Anche questo residuo del passato ha dovuto però arrendersi al tempo sette anni fa: aveva anzi campato assai, considerando che l’audience in quella casa era decisamente più carente…
Sic transit gloria pistarum.
Così passano anche gli oggetti, che ci accompagnano nella nostra vita e anzi a volte sono più tenaci e duraturi di noi. Ma delle nostre cose ci resta la tenace memoria: perché al singolo oggetto si collegano tante altre cose, sepolte in qualche angolo remoto della nostra mente e pronte però a tornare a galla come una “madeleine” proustiana.
E anche in questo momento, mentre batto su una tastiera del XXI secolo queste righe, mi pare di rivedermi e di risentirmi accovacciato per terra, con i pantaloncini corti (immancabili a quei tempi), intento a smanettare su quell’antenato dei moderni telecomandi nel tentativo di far volare le mie macchinine verso l’infinito e oltre.