Il dardo di Eros nelle “Argonautiche” di Apollonio Rodio

Il III libro delle “Argonautiche” di Apollonio Rodio costituisce una svolta nel poema, sia perché la vicenda si svolge ormai nella Colchide, nel paese del re Eeta, sia perché in esso domina il tema dell’amore di Medea, figlia del re, per Giasone. La passione nasce in seguito a una “cospirazione” divina, poiché Hera ed Atena, in ansia per Giasone, si recano a casa di Afrodite (v. 36), pregandola di esortare suo figlio Eros a colpire con le sue frecce Medea, perché si innamori dell’eroe e lo aiuti nella sua difficile impresa.

“Giasone e Medea” (1907) di J. W. Waterhouse

Anzitutto è opportuno riassumere il contenuto del passo.

All’inizio Afrodite lamenta la disubbidienza del figlio, provocando i sorrisi delle visitatrici; Hera la invita a non adirarsi perché suo figlio “la smetterà, prima o poi” (v. 110). Afrodite va quindi in cerca di Eros e lo trova “nel giardino fiorito di Zeus” (v. 114) in compagnia di Ganimede, intento a giocare ai dadi. Eros vince e sghignazza soddisfatto, mentre l’avversario si allontana “sconsolato a mani vuote” (v. 126). La madre rimprovera il piccolo dio per avere vinto con l’imbroglio; subito dopo però gli chiede un favore, promettendogli in dono “il balocco stupendo di Zeus” (v. 132), una splendida palla “fatta di cerchi dorati” (v. 136), che se lanciata lascia nell’aria una scia splendente. Eros chiede insistentemente ad Afrodite che il dono gli sia consegnato subito; la dea giura di mantenere la promessa, ma prima pretende che il figlio scagli i suoi dardi micidiali su Medea. Eros, armatosi di arco e frecce, parte per compiere la missione. Giasone giunge con Telamone, Augia ed i figli di Frisso alla reggia di Eeta: Medea scorge per prima gli eroi e manda un grido; sua sorella Calciope riconosce i figli e li abbraccia felice. A questo punto arriva Eros, che subito lancia un dardo contro Medea; la fanciulla è presa da un “muto stupore” (v. 284). Il piccolo dio si allontana “ridendo” (v. 285), mentre la freccia brucia nel cuore della fanciulla.

Il brano è un delizioso cammeo ellenistico. Il “prologo in cielo” è una scena topica nell’epos omerico (cfr. il I libro dell’Odissea); ma qui tutta la scena è caratterizzata da un tono “borghese”, intimo, agli antipodi degli scenari tradizionali dell’epos. La trasformazione antropomorfa delle divinità olimpiche arriva ai massimi livelli, sicché la visita di Hera ed Atena somiglia a un meeting fra pettegole signore “bene” della società elegante di Alessandria. D’altro canto, le perplessità di Afrodite di fronte alla “disubbidienza” del figlio rientrano nel topos dell’amore “incontrollabile”, cui perfino le divinità devono soccombere. La dea sembra una normalissima madre esasperata per le monellerie di un figlio indisciplinato e ribelle, che mette a dura prova la sua pazienza, tanto da farle ventilare l’ipotesi di fargli a pezzi l’arco e le frecce.

Di fronte al sorriso delle “colleghe” Hera ed Atena, Afrodite ribatte un po’ piccata: “I miei dolori fanno ridere gli altri” (v. 102). La scena assume così il carattere di una riunione fra tre comari alle prese con i banali problemi della vita quotidiana.

La novità maggiore del brano è l’inedita caratterizzazione di Eros, che non è più la potente forza primordiale della cosmogonia esiodea, ma un capriccioso adolescente alato, che con arco e frecce si diverte a trafiggere cuori (pure quello di sua madre). L’attenzione al mondo dell’infanzia è tipico della prima età ellenistica (cfr. l’Inno ad Artemide di Callimaco) e rispecchia una forma di sperimentalismo psicologico un po’ lezioso.

Eros è mostrato dapprima in un’atmosfera informale e quotidiana, mentre è in compagnia di Ganimede ed intento con lui al gioco dei dadi (vv. 117-126); questo gioco appare ovviamente emblematico, alludendo alla volubilità e all’azzardo dell’amore. La precisione dei dettagli induce a ritenere molto probabile un rapporto con l’arte figurativa: si è pensato ai “Giocatori di dadi” (Ἀστραγαλίζοντες) di Policleto, ricordati da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia XXXIV 19), ma il soggetto ritornerà anche nella pittura, fino all’età romana (ad es. gli encausti di Pompei raffigurano Eros attorniato dagli “amorini”).

“Eros e Ganimede” di Alfred Sacheverell Coke

La successiva scena del lancio del micidiale dardo di Eros (vv. 275-298) riprende molti topoi relativi al terribile dio: la sua “violenza” (v. 276) che lo rende simile al tafano che si lancia sul bestiame, la sua rapidità (v. 278), la sua freccia “apportatrice di pene” (v. 279), la meticolosità beffarda dei suoi preparativi (“ammiccando”, v. 281), il suo “farsi piccolo” (v. 282) per mimetizzarsi. L’amore nasce in Medea istantaneo: “un muto stupore (ἀμφασίη) le prese l’anima”; l’afasia, l’impossibilità di parlare, fa parte dei sintomi tipici dell’innamoramento (cfr. Saffo 31 V.), ma qui – oltre lo sconvolgimento provocato dall’eros – indica subito le “remore inibitorie” (come le definisce Paduano) che contraddistingueranno l’amore di Medea.

La condizione psicologica della fanciulla è espressa da un potente ossimoro: “consumava il suo animo nel dolore dolcissimo” (γλυκερῇ… ἀνίῃ, v. 290). Anche una similitudine molto espressiva (che paragona Medea a una filatrice alle prese con un tizzone ardente) rappresenta con efficace icasticità lo sconvolgimento della ragazza, che ormai “ardeva in segreto” e con la mente “smarrita” (v. 297).

“Medea” (1889) di Evelyn De Morgan

Riporto questa parte finale del brano, nella traduzione di Guido Paduano: “Senza farsi vedere, / [Eros] arcò la soglia con passo veloce e ammiccando, / e facendosi piccolo scivolò ai piedi di Giasone; / adattò la cocca in mezzo alla corda, tese l’arco con ambo le braccia, / e scagliò il dardo contro Medea: un muto stupore le prese l’anima. / Lui corse fuori, ridendo, dall’altissima sala, / ma la freccia ardeva profonda nel cuore della fanciulla / come una fiamma; e lei sempre gettava il lampo degli occhi / in fronte al figlio di Esone, e il cuore, pur saggio, / le usciva per l’affanno dal petto; non ricordava nient’altro / e consumava il suo animo nel dolore dolcissimo. / Come una filatrice, che vive lavorando la lana, / getta fuscelli sopra il tizzone ardente, e nella notte / brilla la luce sotto il suo tetto – si è alzata prestissimo – / a fiamma si leva immensa dal piccolo legno, / e riduce in cenere tutti i fuscelli; cosi a questo modo / il terribile Eros, insinuatosi dentro il cuore, / ardeva in segreto; e, smarrita la mente, /le morbide guance diventavano pallide e rosse” (III 280-298).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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