In una gelida notte invernale, una fanciulla di nome Conopio lascia davanti alla porta il suo innamorato. Questi si lamenta della crudeltà della spietata donna, ma le ricorda che un giorno, quando sopraggiungerà la vecchiaia, rimpiangerà ciò che adesso rifiuta.
Il carme a Conopio (A.P. V 23) è l’unico epigramma erotico di Callimaco di Cirene (III sec. a.C.) che sia dedicato ad una donna (gli altri hanno in genere carattere omoerotico).
Proprio questo dato ha indotto alcuni a dubitare della paternità callimachea del breve componimento: “Lo stile, l’argomento (nessun altro suo epigramma erotico è rivolto ad una donna), ed alcune peculiarità metriche sono incompatibili con l’attribuzione a Callimaco di questo grazioso epigramma, che andrà piuttosto dato a Rufino” (G. B. D’Alessio, Callimaco – Inni, Epigrammi, Ecale, BUR, Milano 1996, p. 269n.).
Comunque sia, il nome della fanciulla è “parlante”: infatti Konòpion (Κωνώπιον) è diminutivo di kònops (κώνωψ) “zanzara”; equivale dunque a Zanzaretta” e allude forse al carattere petulante e fastidioso della donna.
L’epigramma rientra nel genere del paraklausìthyron (παρακλαυσίθυρον “canto davanti alla porta chiusa”), assai diffuso nell’età ellenistica, che sviluppa il motivo della sofferenza d’amore vissuta dall’amante deluso, escluso (cfr. lat. exclusus amator) dalla casa dell’amata, appostato davanti alla porta chiusa, nell’immancabile contesto di una perturbazione atmosferica, al freddo e al gelo.
Il componimento si può suddividere in tre parti, che creano una specie di climax: 1. la donna viene chiamata per nome e l’innamorato (ἐραστής) le augura di soffrire quello che sta soffrendo lui (vv. 1-2); 2. Conopio viene definita priva di compassione (vv. 3-4); 3. alla donna viene ricordata la brevità della giovinezza e del fascino femminile (vv. 5-6).
L’uomo definisce la ragazza “ingiustissima” (ἀδικωτάτη), con un’evidente reminiscenza saffica; infatti nell’Ode 1 V. ad Afrodite la dea chiedeva a Saffo chi “le facesse ingiustizia” (Τίς σ’, ὦ Ψάπφ’, ἀδικήει), nel senso specifico di “non ricambia – come sarebbe giusto – il tuo amore”.
L’innamorato ricorda poi all’amata che, sopraggiunta la vecchiaia, rimpiangerà le occasioni a cui adesso rinuncia. Il tema non è nuovo; già nella Silloge di Teognidesi leggeva: “Il fiore dell’amata primavera passa più veloce/ di una corsa: pensaci e allenta/ le catene, crudele fanciullo, perché anche tu un giorno/ non patisca i duri tormenti di Cipride, / come io per te. Stai attento, che non vinca/ anche te la crudeltà di un ragazzo” (vv. 1305-1310, trad. Cavalli).
Ma è nuovo l’inserimento di questo motivo in un paraklausìthyron, che prospetta un ribaltamento della situazione: il distico finale non rappresenta dunque un innamorato affranto e inconsolabile, ma un uomo deluso, rabbioso e capace di rivolgere un’invettiva contro l’amata.
L’espediente non rappresenta soltanto un tentativo di rinnovare la tradizione letteraria, ma testimonia anche il distacco del poeta nei confronti del turbamento erotico.
Dal punto di vista retorico si nota un insistito uso dell’anafora, che ha indotto alcuni critici fra cui Pfeiffer, a considerare apocrifo l’epigramma; ma i dubbi appaiono ingiustificati, perché lo stile è squisitamente callimacheo.
Ecco il testo greco (edizione Paton 1916-1918) seguito da una mia traduzione:
Οὕτως ὑπνώσαις, Κωνώπιον, ὡς εμέ ποιεῖς
κοιμᾶσθαι ψυχροῖς τοῖσδε παρὰ προθύροις·
οὕτως ὑπνώσαις, ἀδικωτάτη, ὡς τὸν ἐραστὴν
κοιμίζεις, ἐλέου δ’ οὐδ’ ὄναρ ἠντίασα.
Γείνοτες οἰκτείρουσι, σὺ δ’ οὐδ’ ὄναρ· ἡ πολιὴ δὲ 5
αὐτίκ’ ἀναμνήσει ταῦτά σε πάντα κόμη.
Possa tu dormire, Conopio,
così come fai dormire me,
presso questo portico ghiacciato.
Possa tu dormire, donna ingiustissima,
così come fai dormire il tuo innamorato;
io non ottengo nessuna pietà,
neppure per sogno!
I vicini hanno pietà di me,
ma tu neppure per sogno!
Ah, ma la tua chioma bianca
presto ti farà ricordare
tutte queste cose.