L’avanzata terrificante di uno spietato esercito aggressore è descritta con toni fortemente patetici nella parodos della tragedia “Sette contro Tebe” di Eschilo, che furono rappresentati ad Atene nella primavera del 467 a.C.
In questo dramma “pieno di Ares” è in corso (come nel caso dell’attuale guerra in Ucraina) una guerra – letteralmente – fratricida.
I fratelli Eteocle e Polinice, figli dello sventurato Edipo (colui che, senza saperlo, aveva ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta), si erano accordati per regnare su Tebe un anno ciascuno; tuttavia allo scadere del primo anno Eteocle non cedette il trono al fratello. Questi allora, rifugiatosi ad Argo, organizzò una spedizione militare punitiva, alleandosi con altri sei re per assalire Tebe e “de-eteoclizzarla” (forse oggi avrebbe detto così).
Nel prologo, Eteocle ha esortato il popolo a difendere la patria dall’assalto dell’esercito argivo. Un messaggero ha recato notizie recenti: i sette capitani avversari hanno giurato di distruggere la città nemica; Eteocle si è allora allontanato per provvedere alla difesa della città.
Nella parodos, il canto d’ingresso del coro, irrompe sulla scena un gruppo di ragazze tebane terrorizzate. Urlano, gridano, corrono disperate: “Urlo di paura: forte è l’angoscia! / Si muove l’esercito: l’esercito ha lasciato il campo! / È una fiumana che scorre (eccola!) la grande armata: / avanti corrono i carri! / Nell’aria si è alzata la polvere ad avvertirmi (la vedo!): / non ha voce ma è un messaggero chiaro e sicuro. / Il suolo della mia terra è percosso da scalpitìo di zoccoli: / offende l’orecchio, è un boato / che aleggia nell’aria e rimbomba, come inarrestabile / acqua che batte la roccia” (vv. 78-86, trad. Centanni).
Prima ancora di subirla fisicamente, le fanciulle “sentono” e “vedono” la guerra che avanza spietata contro la loro città: sentono le urla dei nemici, lo scalpitìo degli zoccoli, il nitrito dei cavalli, il frastuono dei carri, i colpi battuti sugli scudi, il “boato” dei guerrieri argivi; e vedono la polvere sollevata dai loro carri, vedono la “fiumana” delle forze nemiche paragonabile a un’alluvione che devasta e sommerge tutto.
[Immagino donne ucraine, in questo momento, che, come quelle antiche fanciulle tebane, corrono disperate per le strade, si rintanano nei bunker, si tappano le orecchie devastate dai boati delle bombe, vedono crollare le loro case sotto il fuoco cieco dei missili…]
In Eschilo l’impatto teatrale di questa scena è fortissimo: se nel teatro greco era consuetudine che il coro entrasse ordinatamente nell’orchestra, qui le fanciulle del coro arrivano di corsa, sconvolte, frenetiche, allucinate. La potente “visualizzazione” dell’anormalità portata dalla guerra nei gesti, negli atteggiamenti, nelle consuetudini quotidiane non potrebbe essere più efficace.
Questa scena impressionante fu ottimamente resa dal regista Marco Baliani nel suo allestimento della tragedia eschilea a Siracusa nel 2017. Nell’allestimento di Baliani la scena del Teatro Greco, cosparsa di terra, presentava soltanto un grande albero al centro dell’orchestra; intorno si udivano i rumori della battaglia: cozzare di armi, nitrito di cavalli, rimbombi, scrosci.
Come ebbe a dichiarare il regista, «Tebe è una città assediata, in preda al panico. Una città contesa tra eserciti fratelli. È la paura la protagonista dell’intera opera, una paura fomentata dai suoni, dal clamore e dagli echi dell’esercito nemico che circonda la città. È una città svuotata, abitata più da donne che da uomini, come tutte le città contemporanee dove la guerra e l’assedio sono stillicidio quotidiano. Tebe è come Sarajevo ieri, come Aleppo oggi. Le donne sanno che a loro toccherà essere stuprate e ridotte schiave, non possono far altro che pregare lontane divinità per avere un conforto al terrore che le invade. […] La battaglia è un intruglio di umori dirompenti, cavalli che calpestano, lance che ondeggiano, armature febbrili e povere. […] Non si esce mai dalla piazza, ma si assiste al panico e alla paura dentro le mura. Ed è attualissima, come tutte le guerre. Nelle scene finali i cittadini di Tebe sono visivamente quelli di Mosul, asserragliati in attesa di violenze e stupri”.
Come si vede, il regista aveva in mente Sarajevo, Aleppo, Mossul. Ma noi pensiamo in questo momento a Kiev, Dnipro, Mariupol, Lutsk, Ivano-Frankivsk.
Stamattina, 12 marzo 2022, alle 5 – come riferisce un flash di agenzia – «le sirene suonano in diverse città dell’Ucraina, da Leopoli a Kiev, da Cherasky a Charkiv. Poche ore fa Cnn ha riferito di esplosioni non lontano dalla capitale ucraina, dove le forze russe si starebbero avvicinando».
Alle 7 «è cessato dopo due ore l’allarme aereo di stamattina a Leopoli, la città nell’ovest dell’Ucraina, finora considerata relativamente sicura; la città è stata svegliata dalle sirene d’allarme prima dell’alba, attorno alle 5.30».
L’antica tragedia eschilea è riprodotta puntualmente in queste ore dagli eventi che si svolgono in diretta nell’Ucraina invasa nel corso della “operazione di pace” dei Russi. Anche qui c’è un Polinice/Putin che va a caccia del “fratello” Eteocle/Zelensky (la guerra in corso è letteralmente fratricida) per stanarlo ed eliminarlo, per prenderne il posto.
Gridavano così le ragazze del coro eschileo: «Al di là delle mura luccicano gli scudi, / l’esercito avanza compatto contro la città: / veloce avanza! / Chi mai potrà salvarci? Chi ci proteggerà? / Chi degli dei? Chi delle dee? / Qual è la statua divina / ai cui piedi mi devo gettare?» (vv. 90-96). Analogamente oggi donne, anziani, bambini ucraini in queste ore si chiedono chi li potrà salvare; e probabilmente molti si rivolgeranno alla fede in Dio, vedendo traballare e vanificarsi ogni fede negli uomini.
Nei “Sette contro Tebe” nella scena successiva tornerà in scena il re Eteocle, imprecando contro le grida isteriche delle donne e considerandole dannose e disfattiste. Ecco il leader irriducibile, che non intende arrendersi, che resiste, che prende le sue contromisure contro gli invasori.
Eteocle appare come un ottimo capo di stato, valoroso, attivo, caratterizzato da un alto senso del dovere, concreto, perspicace come suo padre Edipo; eppure sembra disincantato: «Se riusciremo a salvarci, il merito sarà di un dio. / Ma se invece (e io prego che non accada) avremo in sorte la sventura, / un solo nome, Eteocle, sarà invocato a gran voce dalla città tutta / in uno scrosciare di canti e di lamenti» (vv. 4-8, trad. Ieranò). In realtà questo personaggio “pubblico” porta in sé dei terribili traumi “privati”: è il “figlio di Edipo” (come il coro gli ricorda più volte), è nato da un incesto, è destinato (come tutti gli spettatori sapevano) ad uccidere Polinice e ad esserne ucciso.
La conclusione di “quella” guerra è un po’ come la conclusione di “tutte” le guerre: i fratelli si uccideranno a vicenda, lo scontro fratricida avrà come esito l’azzeramento della stirpe.
Mi torna in mente, in questo momento, anche il coro del “Conte di Carmagnola” di Manzoni, che commenta la battaglia di Maclodio (1427) dove i Veneziani, guidati da Carmagnola, hanno sconfitto i Visconti. Uno scontro assurdo fra italiani: «I fratelli hanno ucciso i fratelli: / questa orrenda novella vi do». Il tutto, senza capirne e saperne il motivo: «Oh terror! Del conflitto esecrando / la cagione esecranda qual è? / Non la sanno: a dar morte, a morire / qui senz’ira ognun d’essi è venuto; / e venduto ad un duce venduto, / con lui pugna, e non chiede il perché».
Dovrebbero rileggersi pagine come queste, coloro che pesano col bilancino il torto e la ragione nel conflitto in Ucraina, coloro che mirano a “giustificarlo” in qualunque modo, coloro che osano trovare una razionalità e una necessità nell’uso delle armi (che, beninteso, va condannato sempre e da qualunque parte esso provenga).
L’unica constatazione da fare sarebbe invece, sulla base dei versi manzoniani, «Ahi sventura! sventura! sventura! / Già la terra è coperta d’uccisi; / tutta è sangue la vasta pianura; / cresce il grido, raddoppia il furor».