Un’antica foto e il pianto dei bambini

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz dai nazisti (quella sì che fu una “denazificazione”). Non a caso il 27 gennaio è per noi la Giornata della Memoria, a ricordo degli ebrei sterminati durante le persecuzioni razziali.

Una celebre foto, che ben simboleggia quel periodo di orrore, ritrae un bambino ebreo terrorizzato, con lo sguardo smarrito e con le mani alzate di fronte agli ufficiali tedeschi della Gestapo.

Quasi quarant’anni dopo, nel 1982, un tale Tsvi Nussbaum dimostrò di essere lui quel bambino, fornendo la foto di un suo passaporto di due anni dopo in cui si notava un’indiscutibile somiglianza. Nussbaum dichiarò che la foto era stata scattata a Varsavia il 13 luglio 1943 davanti all’hotel Polsky, dove si erano presentati alcuni ufficiali tedeschi con una lista di nomi di ebrei, tra cui quello di Tsvi, da deportare ad Auschwitz. Il bambino era orfano (i suoi genitori erano stati già uccisi) e sarebbe stato fucilato subito se un suo zio non avesse mentito dicendo che Tsvi era suo figlio. Il piccolo si salvò così dalla fucilazione, ma fu deportato ad Auschwitz, dove rimase fino alla sua liberazione. In seguito emigrò nel 1954 negli Stati Uniti e diventò un affermato dentista a New York. Nussbaum morì nel 2012, ma in tutta la sua esistenza affermò sempre di non aver mai dimenticato l’esperienza tragica delle persecuzioni.

Di questa impressionante foto fa menzione Andrea Camilleri in un passo del romanzo “Il giro di boa” (Sellerio, Palermo 2003).

Il commissario Montalbano partecipa con sofferenza ed immedesimazione alle disgrazie altrui, soprattutto quando queste càpitano a persone deboli e indifese come i bambini.

In particolare, in questo romanzo, egli prova sincera pietà per un piccolo extracomunitario, che, all’arrivo di un folto gruppo di clandestini intercettati in mare, sfugge alla (presunta) madre e corre a nascondersi sulla banchina del porto: “Il picciliddro stava con le mani in alto, in segno di resa, l’occhi sbarracati dal terrore, ma si sforzava di non chiangiri, di non dimostrare debolezza” (pp. 59-60). Al commissario viene in mente allora “una vecchia fotografia, vista tanti anni prima ma scattata ancora prima, in guerra, avanti che lui nascesse, e che mostrava un picciliddro ebreo, o polacco, con le mani in alto, l’istessi precisi occhi sbarracati, l’istissa precisa volontà di non mittìrisi a chiàngiri, mentri un sordato gli puntava contro un fucile. Il commissario sentì una violenta fitta al petto, un duluri che gli feci ammancari il sciato, scantato serrò le palpebre… Montalbano avanzò di un passo, gli pigliò le mani agghiazzate, le tenne stritte tra le sue. E arristò accussì, aspittanno che tanticchia del suo calore si trasmettesse a quelle dita niche niche” (p. 60).

Montalbano reagisce come ogni essere umano, degno del nome di uomo e degno di appartenere al genere umano, dovrebbe reagire: sente “una violenta fitta al petto”, “un dolore che fa mancare il fiato”; e prende le mani del bambino, mani “ghiacciate”, tenendole strette fra le sue, per trasmettere il suo calore nelle sue dita “piccole piccole”.

Mi è tornato in mente questo brano di Camilleri (esiste ancora qualcuno che non gli riconosca la statura di grande autore letterario?) proprio ricollegando quell’antica foto e quello sguardo disperato di bambino smarrito alle drammatiche immagini che ho visto poco fa nel Telegiornale.

Erano le agghiaccianti immagini dei bambini ucraini in lacrime, in braccio alle loro madri, strappati ai loro giochi, alla loro spensieratezza, alla loro infanzia, confinati come topi nei bunker sotterranei o costretti a pericolose e sfiancanti fughe verso una salvezza difficile e verso un futuro ricco di incognite.

E tuttavia il fucile puntato su questi bambini, oggi, non è soltanto costituito dalla fiumana di bombe e missili riversate dai russi sul loro Paese, non è solo la spietata determinazione criminale di chi ha dato ordine di sparare sui civili, ma è anche e soprattutto la possibilità che esista qualcuno che, in nome di ideologie preistoriche cancellate dalla modernità, in nome di schemi politici precostituiti, in nome di slogan puerili, osa in questo momento filosofeggiare su chi ha torto e chi ha ragione, osa ammettere che esistano delle “ragioni” in questa folle guerra criminale che insanguina l’Ucraina e mette in pericolo la pace del mondo.

Mettevo a confronto, ieri, la sorte di quegli sventurati bambini ucraini, le loro lacrime, il loro rannicchiarsi terrorizzati fra le braccia di madri (che non riescono a regalare loro neanche un illusorio sorriso) con il sequestro – avvenuto ieri nel porto di Imperia – dello yacht appartenente al miliardario russo Alexey Alexandrovits Mordashov, del valore di 65 milioni di euro.

Quanti bambini si potrebbero sfamare, salvare, proteggere, ospitare con 65 milioni di euro? E quale stridente contrasto esiste fra chi veniva a comprare case, ville, alberghi, barche, terreni, grattacieli, aziende nel nostro Paese (Forte dei Marmi è notoriamente chiamato “Forte dei Russi”), in nome della sfrontata arroganza del denaro, e quei piccoli indifesi privi di tutto?

E allora, a che serve in questo momento tirare fuori gli odi tenaci, le antiche rivalità, i giudizi politici prefabbricati, i facili slogan ripetuti a memoria (“Né con Putin né con la Nato”), le vane ricerche di responsabilità?

La verità è che aveva ragione il Padre Cristoforo manzoniano, che – chiamato a dare un giudizio sulla contesa fra un cavaliere spagnolo e uno milanese, nata da una banale questione di puntiglio – esprimeva esplicitamente la sua opinione: «Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate».

Analogamente, non ci dovrebbero essere né invasioni, né invasori, né bombe, né tolleranza (da nessuna parte) per chi le sgancia su persone inermi, né coperture ideologiche, né sofismi, né tentennamenti.

Meriterebbe di vedere i propri figli con quel terrore negli occhi, chiunque osi trovare giustificazioni alla legge primordiale della pietra e della fionda (se non della clava).

«Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

stando in casa, andando per via,

coricandovi alzandovi;

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

i vostri nati torcano il viso da voi»

(Primo Levi)

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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