Allego anzitutto due foto scattate a Genova esattamente sessant’anni fa, nell’aprile 1962, che mi mostrano (all’età di otto anni) nell’ambiziosa veste di strumentista: prima sono seduto al pianoforte davanti a un ampio spartito, poi imbraccio il clarinetto di papà nel suo studio.
In realtà, se ho imparato a strimpellare qualcosa al piano e continuo ogni tanto a divagare sulla tastiera, quel clarinetto – che esiste ancora – non l’ho suonato mai.
Mio padre, Salvatore Pintacuda, invece aveva iniziato a suonarlo da piccolo: allego una foto del 1925 in cui già nelle sue mani (aveva allora 9 anni) si vede appunto questo clarinetto che era stato comprato pochi mesi prima – come sempre mi ricordava mio padre – nel negozio di strumenti musicali Sacco in via Cavour a Palermo.
Fin da bambino, mio padre fu avviato agli studi musicali: non aveva ancora nove anni quando cominciò a solfeggiare e a suonare il clarinetto nella banda di Bagheria, assieme a musicanti molto più grandi di lui. In quei tempi la banda contava oltre 60 elementi ed era il vanto del paese; quando andava a suonare nei paesi vicini, anche il piccolo Totò partiva, con il clarinetto e con la sua elegante divisa (acquistati, ovviamente, coi sacrifici della sua famiglia, giacché non esisteva alcuna sovvenzione comunale per l’acquisto di divise e strumenti). In seguito, a 17 anni, conseguì il diploma di clarinetto al Conservatorio di Palermo col massimo dei voti.
Ogni tanto, a casa, mio padre prendeva dalla sua custodia nera questo storico clarinetto, ci soffiava dentro, ne controllava l’ancia, iniziava a intonare delle note sempre più lunghe.
Poi iniziava ad eseguire ogni tipo di musica (musica per banda, brani d’opera, pezzi concertistici, persino canzonette o musica jazz), a memoria o leggendo lo spartito o calando in pochi secondi sul pentagramma delle composizioni inedite. Alla fine del piccolo concerto personale, riponeva lo strumento con delicatezza nel suo scaffale, guardandolo sempre con evidente affetto.
Dopo la sua morte, quell’antico strumento è ora a casa mia, dove viene conservato con una sorta di venerazione; non solo per la sua vetustà, ma anche e soprattutto per quello che ha significato nella storia della nostra famiglia. E anche se non so suonarlo e non saprei di dove cominciare, ogni tanto lo guardo anch’io con grande nostalgia.
Noi passiamo, le nostre cose ci sopravvivono e mantengono il ricordo di noi per le generazioni future.
Almeno, per quelle che capiscono e mantengono il valore dei ricordi.