Armi difensive e armi offensive

ARMI DIFENSIVE E ARMI OFFENSIVE

Nei poemi omerici il confine fra “armi difensive” e “armi offensive” è assai labile.

Ad esempio lo scudo, a prima vista, si può ritenere un’arma “difensiva”; ma in realtà non è così.

Nell’Iliade lo scudo, , chiamato “aspìs” (ἀσπίς) o “sàkos” (σάκος), era di pelle bovina, ricoperto di piastre metalliche e con una grossa borchia (“omphalòs”, ὀμφαλός) al centro. Era enorme, dato che poteva ricoprire quasi tutta la persona (un suo epiteto è “podēnekés”, ποδηνεκής “lungo fino ai piedi”); a volte viene paragonato addirittura a una torre. Per lo più aveva forma perfettamente circolare (a questo allude l’epiteto “èukyklos”, εὔκυκλος, “perfettamente rotondo”).

Lo scudo recava splendide decorazioni: a parte il celebre scudo di Achille, la cui lunga descrizione (“èkphrasis”, ἔκφρασις) compare nel XVIII libro dell’Iliade, è interessante ricordare lo scudo di Agamennone, che – come si legge nel testo omerico –  è “grande e possente, riccamente ornato, stupendo: dieci cerchi di bronzo vi correvano intorno e al centro c’erano venti borchie di stagno, bianche, con una nel mezzo di smalto nero; lo incoronava una Gorgone dal volto tremendo, dallo sguardo crudele, con accanto Deimos e Phobos” (XI 32-37, trad. Ciani).

Ecco un dettaglio importante.

Lo scudo presenta un’immagine spaventosa, terrificante: la Gorgone, il mostro che pietrifica (e che appunto deve “pietrificare” il nemico), accompagnata per di più da Deimos e Phobos (“Terrore” e “Paura”, divenuti poi i nomi dei satelliti di Marte).

Le immagini spaventose dovevano paralizzare il nemico, inibendone le risorse fisiche e psichiche; il valore dello scudo era magico, apotropaico: «C’è un rapporto tra la maschera sul viso e la maschera di un corpo, lo scudo. Esso deve irraggiare spavento, ha una funzione protettiva di corazza, e una aggressiva, di terrorizzare nascondendo ciò che è umano. Chi si copre con uno scudo cessa di essere vulnerabile, fa sparire le parti molli non protette, la debolezza» (Albini).

Nei “Sette contro Tebe” di Eschilo Eteocle, il figlio di Edipo, sente descrivere da un messaggero le terribili immagini che decorano gli scudi dei sette condottieri nemici; e ogni volta analizza quelle icone, ne decifra il senso, ne analizza la minaccia e la esorcizza, scegliendo poi ogni volta un guerriero da contrapporre al nemico: «I nemici puntano su una paura arcaica, paralizzante: Eteocle neutralizza il maleficio, lo storna, lo fa ricadere su chi l’ha scatenato, dimostra lo scopo, la funzione del tatuaggio: sotto di esso scopre il semplice mortale, ne svela la fragilità… E contrappone alla tragedia, alla stregoneria, alla bestiale follia i suoi uomini pii, morali, privi di iattanza, la gente dell’ordine, della pietà» (Albini).

Tornando ad Omero, Maria Grazia Ciani chiarisce un altro valore essenziale dello scudo nel combattimento, evidenziandone un altro carattere “offensivo”: «Lo scudo è giostrato dai guerrieri come una muleta. Basta un attimo di disattenzione, un gesto poco cauto, e la lancia nemica oltrepassa questa barriera che è insieme prima ed ultima linea, estrema difesa contro il nemico, supremo confine tra la vita e la morte. Solo lo scudo può opporsi alla spada, respingere le frecce, fermare la micidiale punta di bronzo della lancia che squarcia così facilmente la corazza e così facilmente penetra nell’elmo».

Insomma, lo scudo (teoricamente arma difensiva) diventava invece un’arma micidiale, che terrorizzava e aggrediva il nemico.

Un discorso analogo vale per l’elmo, che teoricamente dovrebbe avere solo un valore difensivo.

Omero lo chiama, per lo più, “kòrys” (κόρυς); viene definito “hippodasèie” (ἱπποδασείη “dalla folta criniera equina”) ed è descritto da epiteti come “lucente” (φαεινός “lucente”) e “bronzeo” (χαλκήρης). Ettore (che era “sterminatore di uomini”) era detto “agitatore dell’elmo” (“korythàiolos”, κορυθαίολος).

L’elmo era sormontato da un “cimiero” fatto con la criniera equina, il “lòphos” (λόφος); e proprio il “cimiero dalla chioma equina” di Ettore spaventa il suo piccolo figlio Astianatte nella tenerissima scena del colloquio con la moglie Andromaca: «E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre: / ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura  / si piegò con un grido, atterrito all’aspetto del padre, / spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato, / che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo.  / Sorrise il caro padre, e la nobile madre, / e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa, / e lo posò scintillante per terra; / e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia” (Il. VI 466-474, trad. Calzecchi Onesti).

Come si vede, l’elmo e il cimiero, che non sono propriamente “armi offensive”, ottengono l’effetto di spaventare un bambino piccolo, ma quel cimiero che “ondeggia terribile” non doveva essere meno terrificante per i nemici nei combattimenti.

Un’ultima nota, prima di passare ad alcune considerazioni “attuali”.

Nei poemi omerici una delle “scene tipiche” ricorrenti consiste nella “vestizione delle armi”. In un ordine pressoché costante, i guerrieri indossano le gambiere e la corazza; successivamente essi prendono la spada, lo scudo e l’elmo; la lancia è l’ultima arma ad essere brandita.

Questa, ad esempio, è la scena della “vestizione di Patroclo” (che sta scendendo in campo con l’armatura di Achille): «Patroclo s’armò di bronzo accecante. / Prima intorno alle gambe si mise gli schinieri / belli, muniti d’argentei copricaviglia; / poi intorno al petto vestì la corazza / a vivi colori, stellata, dell’Eacide piede rapido. / S’appese alle spalle la spada a borchie d’argento, / bronzea, e lo scudo grande e pesante; / sulla testa gagliarda pose l’elmo robusto, / con coda equina; tremendo sopra ondeggiava il pennacchio. / Prese due forti lance che s’adattavano alla sua mano; / ma non prese l’asta dell’Eacide perfetto / grande, pesante, solida: nessuno dei Danai poteva / brandirla, solo Achille a brandirla valeva» (Il. XVI 130-142, trad. Calzecchi Onesti).

Al termine della vestizione, l’eroe è terribile: promana da sé luce (le armi sono “belle” per Omero) e terrore. E il dettaglio più “tremendo” è dato anche qui dal pennacchio che ondeggia spaventoso sulla testa del guerriero.

Potremmo continuare, ma il concetto credo sia chiaro. Stabilire, di un’arma (strumento che è comunque di combattimento, di lotta e di morte), se sia “difensiva” o “offensiva”, è pressoché impossibile.

Come è noto, si discute e si polemizza, per ora, sulle forniture di armi italiane all’Ucraina.

Di invio di armi “difensive” parla il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, per il quale il governo Draghi «sta lavorando a sostegno dell’Ucraina secondo le indicazioni che sono state date dal Parlamento», con una risoluzione sulle armi da mandare a Kiev che è stata votata «a larghissima maggioranza, quasi all’unanimità»; si tratta, secondo Guerini, di «sostenere, tramite l’invio di materiale militare, la resistenza ucraina con sistemi d’arma difensivi».

Non ne è convinto Giuseppe Conte, leader (anzi, uno dei leader) del Movimento degli Zainetti (scheggia sempre più impazzita del governo-minestrone di Draghi), che ieri al termine di un convegno a Palazzo Giustiniani ha dichiarato: «Non credo assolutamente che la nostra posizione debba contemplare di inviare armi sempre più pesanti».

In questo, Conte ha ritrovato piena convergenza con il suo ex-alleato (e poi nemico) Matteo Salvini; questi ieri, con i suoi melliflui toni ecumenico-pontifical-apostolici ha affermato: «Dopo due mesi e mezzo e migliaia di morti io do voce alla maggioranza degli italiani seguendo anche quello che dice il Santo Padre. Non voglio lasciare ai miei figli un mondo che si avvicina alla terza guerra mondiale. Più armi, più morti. L’Italia deve lavorare per la pace».

Le due posizioni sono chiare. Ma, si discuta di armi difensive o no, entrambe sembrano ignorare un dato di fatto oggettivo: già di norma l’export di armi per l’Italia vale circa 4,6 miliardi di euro all’anno; nel 2021 l’Italia ha venduto armi a 92 Paesi.

Il commercio di armi è – anche – un business, al di là delle ideologie più o meno di facciata.

C’era persino un film di Alberto Sordi, “Finché c’è guerra c’è speranza” (1974), che vedeva l’attore nei panni di uno spregiudicato venditore di armi nei Paesi del Terzo Mondo; smerciava armi, bombe, carri armati e aerei a dittatori africani; e davanti a un presidente particolarmente guerrafondaio arrivava a dichiarare: «Monsieur le Président, je vous ai apporté la bombe atomique!».

E francamente, siccome chi vende armi tende sempre a venderne di più micidiali, il timore di un’escalation e di qualche “incidente” (che vanifichi la pseudo-distinzione fra armi “difensive” ed “offensive”) è concreto.

Fatto sta che, se esco di casa portandomi una pistola “per difendermi” in caso di aggressioni (magari con regolare porto d’armi), c’è il concreto rischio che io possa usarla arrivando a “eccessi di legittima difesa”; e sicuramente corro il rischio di uccidere qualcuno.

[Si dica tutto questo, ovviamente, al netto della condanna totale della ingiustificabile, delirante e scalcagnata “operazione militare” russa].

In fondo, in questo mondo sempre più impazzito, in cui – per dirla con Gandhi – “occhio per occhio rende il mondo cieco”, si rimpiange sempre più che non esista più un Padre Cristoforo che dica: «il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate».

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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