Verso la fine degli anni Settanta, mio cugino Pietro Maggiore (poeta dialettale bagherese) iniziò il suo sodalizio e la sua collaborazione con il suo grande concittadino Ignazio Buttitta, che chiamava affettuosamente “zù Gnaziu”.
Buttitta apprezzava molto le qualità poetiche di Pietro e aveva per lui stima ed affetto, pur essendo consapevole delle differenze che li distinguevano: era più anziano, non aveva “succhiato il latte della cultura” e (a differenza di Pietro) aveva partecipato in modo tumultuoso e polemico alle battaglie politiche. Ma in Maggiore riscontrava le caratteristiche di un vero “poeta” e per questo amava stare con lui; spesso si incontravano nella sua casa fra Aspra e Mongerbino.
Buttitta in quel periodo andava in giro per le piazze a recitare i suoi versi, novello rapsodo che riportava la poesia in mezzo alla gente, dopo troppi anni in cui essa era divenuta retaggio elitario di pochi intimi; e in molte occasioni volle che Pietro venisse con lui per alcuni “recital” di poesie: allora girarono insieme la Sicilia, la Calabria, la Puglia, la Campania, perfino la Lombardia.
Le piazze si riempivano di gente, che andava ad ascoltare ed applaudire i loro versi, composti in dialetto siciliano, ma comprensibili ai cuori e alle menti di tutti.
L’impatto con le masse impressionò ed esaltò Pietro, che aveva amato da sempre il contatto con la gente e soprattutto con le persone più semplici ed umili. Forse anche per questo, si decise nel 1986 a pubblicare l’unica sua raccolta poetica, “Azzurru”, in cui pubblicò 24 sue poesie del periodo 1982-1984. Una goccia d’acqua, posso ben dirlo, nel mare di un’ampia produzione inedita che meriterebbe veramente di essere conosciuta ed apprezzata.
Mentre lavorava a questo progetto, la mattina del 14 novembre 1984 Pietro andò dallo “zù Gnaziu” per sentire un suo parere.
In quell’occasione Buttitta, con la sua straordinaria capacità creativa, compose di getto una lirica per Pietro, che poi fu inserita nel libro come premessa alle altre poesie. Credo che questa poesia sia molto bella, non solo perché dimostra la stima e l’affetto di Ignazio per Pietro, ma anche perché contiene alcune riflessioni di carattere generale sulla vita e sulla poesia, che possono aiutare a conoscere meglio Buttitta e costituiscono anche un interessante bilancio (da parte sua) dell’attività poetica svolta.
La lirica parte dall’occasione reale: «“Petru stamatina è ccà / nna me’ casa / a liggirimi i puisii / c’havi a pubblicari» (“Pietro stamattina è qua / nella mia casa / a leggermi le poesie / che deve pubblicare”).
La prima reazione del vecchio poeta, leggendo i versi dell’amico, è di sbandamento, di straniamento, quasi di smarrimento: «Io, ca sugnu unu di chiddi / chi non manciò e sucò / u latti d’a cultura, / capisciu e non capisciu, / cadu e mi susu, / moru e arrivisciu, / acchianu ‘n celu / e mi sdirubbu ‘n terra» (“Io, che sono uno di quelli / che non mangiò e succhiò / il latte della cultura, / capisco e non capisco, / cado e mi alzo, / muoio e rinasco, / salgo in cielo / e precipito in terra”).
Non manca una frecciata ironica contro i critici eruditi: «U sacciu c’a puisia è puru cultura, / ma non m’azzardu a parrari / di tematica, / e di valuri estetici, / comu putissi fari un criticu eruditu, / a panza china, assittatu» (“Lo so che la poesia è pure cultura, / ma non m’azzardo a parlare / di tematica, / e di valori estetici: / come potrebbe fare un critico erudito, / a pancia piena, seduto”). Si nota qui il distacco smaliziato del poeta “popolare” da certa critica saccente e da una cultura accademica e vacua, soddisfatta della sua “pancia piena” ma estranea alla vita quotidiana della gente.
Buttitta dichiara poi (mentendo) la sua “povertà culturale”, attraverso una potente metafora: «Comu putissi averi / ‘na vuci ‘n capitulu / si mi ‘nfilu i manu nne’ sacchetti / pi circari l’oru d’a cultura / e i nesciu vacanti?» (“Come potrei avere una voce in capitolo / se infilo le mie mani nelle tasche / per cercare l’oro della cultura / e le tiro fuori vuote?”).
Aggiunge però che la poesia ha il dono di “fare miracoli”, miracoli “laici” ma non per questo meno straordinari: «U sacciu e l’haiu dittu sempri / chi a puisia pò fari miraculi: / l’ha fattu sempri / senza addinucchiàrisi / e jisannu l’occhi o’ celu» (“Lo so e l’ho detto sempre / che la poesia può fare miracoli: li ha fatti sempre / senza inginocchiarsi / ed alzando gli occhi al cielo”).
Buttitta guarda Pietro e si sente vecchio al suo confronto; pensa allora alla condizione effimera dell’esistenza umana e alla morte che si avvicina: «E, parrannu, penzu tanti cosi: / ca iddu è giuvini ed io sugnu vecchiu, / chi oggi u viu e dumani ‘un lu viu / e chi l’arbuli ccà davanti / sunnu – a mumenti – / curuni, ghirlanni e manu / chi mi salutanu» (“E, parlando, penso tante cose: / che lui è giovane ed io sono vecchio, / che oggi lo vedo e domani non lo vedo / e che gli alberi qui davanti / sono – a momenti – corone, ghirlande e mani / che mi salutano”).
Tuttavia non manca un impetuoso grido d’amore per la vita, nel momento stesso in cui viene definita bella anche la morte: «E – a mumenti – / u suli grapi i vrazza ‘nfucati / e mi trasi nno’ cori e u quadìa / comu fannu i matri puvireddi, / ‘nno ‘mmernu, / quannu strìncinu i picciriddi nno’ pettu / e i quadìanu cu ciatu. / Puru a mia quadìa, / ma a strata è longa, illuminata: / a facissi a pedi nudi. / Com’è bella a vita e a morti!» (“E – a momenti – / il sole apre le braccia infuocate / e mi entra nel cuore e lo riscalda / come fanno le madri povere, / nell’inverno, / quando stringono i bambini al petto / e li riscaldano col fiato. / Pure me riscalda, / ma la strada è lunga, illuminata: / la farei a piedi nudi. / Com’è bella la vita e la morte!”).
La successiva strofe è la più interessante, perché esprime l’opinione di Buttitta sulla “permanenza” nel tempo dei poeti e sul possibile ricordo che resterà di lui: «Petru u sapi / zoccu penzu io d’i pueti, / assira m’u ‘ntisi ripetiri, / mentri mi ‘ntervistava ‘na giornalista, / e mi ‘ntisi diri ca i pueti / chi restanu nno’ tempu sunnu picca, / unu ogni seculu; / e agghiuncivu, / parrannu di mia comu poeta, / ca – forsi – nun ci sarrà nuddu criticu / fra cinquant’anni / chi scrivirrà d’a me’ puisia / e d’u me’ missaggiu d’amuri e di giustizia» (“Pietro lo sa / che cosa penso io dei poeti, / ieri sera me l’ha sentito ripetere, / mentre ero intervistato da una giornalista, / e m’ha sentito dire che i poeti / che restano nel tempo sono pochi, / uno ogni secolo; / ed ho aggiunto, / parlando di me come poeta, / che – forse – non ci sarà nessun critico / fra cinquant’anni / che scriverà della mia poesia / e del mio messaggio d’amore e di giustizia”).
Troppo modesto, forse, “u zù Gnaziu”, che evitava ogni vanto “oraziano” d’immortalità (“non omnis moriar…”) ma al tempo stesso ci teneva a sottolineare il suo tenace “missaggiu d’amuri e di giustizia”.
La parte conclusiva ricostruisce brevemente il sodalizio con Pietro e si chiude con un augurio affettuoso: «Cu Petru amu fattu ‘na trintina di rèciti / e, tutti i voti, / ha ricivutu applausi d’a genti. / Chistu è significativu e dici troppu; / ma l’avviniri è un libbru chiusu / e a puisia, comu tutti i cosi, havi limmiti e mura d’azzaru. / Mi resta d’augurari o’ libru di Petru / a furtuna d’i poviri / ca trasinu ‘n Paraddisu” (“Con Pietro abbiamo fatto / una trentina di recite / e, ogni volta, / ha riscosso applausi dalla gente. / Questo è significativo e dice troppo; / ma l’avvenire è un libro chiuso / e la poesia, come tutte le cose, / ha limiti e mura d’acciaio. / Mi resta d’augurare al libro di Pietro / la fortuna dei poveri / che entrano in Paradiso»).
L’immagine del Paradiso torna nei due splendidi versi finali: «La Puisia è paraddisu ‘n terra / e Petru l’havi chistu paraddisu» (“La Poesia è paradiso in terra / e Pietro lo ha questo paradiso”).
Questa conclusiva esaltazione della poesia nella sua dimensione “paradisiaca”, esaltante e incomparabile, capace di innalzare gli esseri umani in una dimensione superiore, è un vero testamento spirituale del grande poeta bagherese; e valeva la pena di farlo conoscere soprattutto alle nuove generazioni.