Nel V capitolo del “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la storia principale si interrompe e si trova un “excursus” dedicato al confessore del principe di Salina, il gesuita Padre Saverio Pirrone, che nel febbraio 1861, in occasione del quindicesimo anniversario della morte di suo padre, torna al suo paese natale, San Cono.
Tomasi lo definisce «un paese piccino piccino che adesso, in grazia degli autobus, è quasi una delle stie-satellite di Palermo, ma che un secolo fa apparteneva, per così dire, a un sistema planetario a sé stante, lontano com’era quattro o cinque ore-carretto dal sole palermitano». In realtà il paese non esiste, o almeno non si trova nel palermitano; c’è un San Cono che oggi si trova nella città metropolitana di Catania.
Il capitolo-digressione si giustifica con una convinzione espressa dall’autore nelle sue lezioni su Stendhal (periodo 1953-1955): «Nel corso di un romanzo, specie se possiede un’indagine psicologica tesa ed un’azione affrettata, bisogna concedere al lettore alcuni momenti di sosta. Ogni grande autore di opere lunghe ha concesso queste soste: Omero, Dante, Cervantes, Madame de La Fayette intercalano racconti secondari. Anche la divisione in capitoli indica il momento in cui al lettore è concesso di fermarsi, correndo il minimo rischio di spezzare il sortilegio. Stendhal introduce anche lui delle soste nell’azione. La sensazione di riposo è ottenuta mediante un semplice mutamento di tono».
È quello che avviene in questo capitolo del “Gattopardo”, poiché in esso prevale un tono sarcastico-grottesco che segna una pausa fra la pessimistica concezione della Sicilia espressa nel precedente capitolo (con il colloquio fra il principe di Salina e Chevalley) e le ancor più cupe considerazioni del protagonista nel successivo capitolo VI (quello del ballo a Palazzo Ponteleone).
Nel V capitolo Padre Pirrone ha modo di constatare che anche nel suo paese si sono fatti sentire gli echi dei cambiamenti storici dell’anno precedente: i piemontesi però si sono subito presentati come semplici esattori di nuove tasse e il sacerdote ha l’occasione per sciorinare un lungo panegirico dell’antica classe nobiliare (ma il suo interlocutore, il vecchio erbuario don Pietrino, finisce per addormentarsi).
Subito dopo però Padre Pirrone deve intervenire per risolvere una squallida vicenda familiare. Recatosi da sua sorella Sarina, la trova in lacrime: infatti sua figlia, nubile, è stata sedotta e messa incinta da Santino Pirrone (che è, fra l’altro, un loro cugino).
Più che dell’onore della fanciulla (impietosamente descritta come «bruttina assai, con la bocca sporgente di tante contadine del luogo, con gli occhi spauriti di cane senza padrone»), Sarina si preoccupa della reazione di suo marito Vicenzino, uomo violento e collerico: «Anche a me ammazza, quello, perché non ho parlato; lui è “uomo di onore”».
La lite familiare viene poi risolta da padre Pirrone con un compromesso economico: la ragazza sedotta sarà sposata, in cambio della cessione della metà di un mandorleto; e la furia dell’“uomo d’onore” sarà placata dal cugino sacerdote con la cessione della sua parte dell’eredità paterna.
Tutto finisce bene (diciamo così) e l’ultima immagine che resta è quella dei due fidanzati, seduti accanto e «contenti davvero, lei di “sistemarsi” e di avere quel bel maschiaccio a disposizione, lui di aver seguito i consigli paterni e di aver adesso una serva e mezzo mandorleto».
La “digressione” costituita dal capitolo V, a ben vedere, è più apparente che reale; esso infatti presenta evidenti parallelismi con la storia principale narrata nel romanzo. Sarino e Angelina costituiscono la proiezione/deformazione di Tancredi e Angelica (simile solo nel nome): e in fondo la squallida vicenda di seduzione e conquista rispecchia lo stesso tipo di calcolo opportunistico che viene attuato da Tancredi (il matrimonio con la bellissima e ricchissima figlia del “parvenu” don Calogero Sedàra gli ridarà l’agiatezza economica perduta).
Non a caso don Pirrone, a fine capitolo, fa questo impietoso bilancio: «I gran signori erano riservati e incomprensibili, i contadini espliciti e chiari; ma il Demonio se li rigirava attorno al mignolo, egualmente».
A mio parere, in questo dimenticabile capitolo c’è uno spunto da non dimenticare assolutamente.
Si tratta della descrizione di Vicenzino, il mafioso, l’“uomo d’onore”, tratteggiato in poche righe in modo e sferzante: «Con la sua fronte bassa, con i suoi “cacciolani”, le ciocche di capelli lasciate crescere sulle tempie, col dondolio del suo passo, col perpetuo rigonfiamento della tasca destra dei calzoni, si capiva subito che Vicenzino era “uomo di onore”, uno di quegli imbecilli violenti capaci di ogni strage».
L’autore, poi, calca la mano nella scena dell’incontro fra padre Pirrone e questo scomodo cognato, aggiungendo dettagli sgradevoli anche a livello fisico, che trasformano l’arrogante personaggio in un grottesco burattino: «le chiappe grasse dell’“uomo di onore” si dondolavano, simbolo perenne di altezzosa minaccia», «i suoi occhi rotearono, le vene delle tempie si gonfiarono e l’ondeggiare dell’andatura divenne frenetico: un rigurgito di considerazioni oscene gli uscì dalla bocca, turpe […]; la sua mano, che non aveva avuto un solo gesto in difesa dell’onore della figlia, corse a palpare nervosa la tasca destra dei pantaloni per significare che nella difesa del mandorleto egli era risoluto a versare sin l’ultima goccia del sangue altrui».
Lo scorso 19 maggio, al termine del discorso pronunciato al Multisala Politeama di Palermo, un ben noto ex presidente della Regione e ora commissario regionale della nuova DC (alla faccia dell’interdizione dai pubblici uffici), ha così invitato i mille presenti: «Gridate con me: la mafia fa schifo!».
Ma sarebbe stato meglio che la folla plaudente, anziché assecondare quell’oratore, fosse andata a rileggersi quelle poche righe di Tomasi e avesse tenuto a mente quella ben più icastica ed efficace etichetta dei mafiosi.
Perché gli “uomini d’onore” solo questo sono: “imbecilli violenti capaci di ogni strage”. E lo hanno dimostrato fin troppe volte.
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