[Contributo tratto da una conversazione di mio padre, Salvatore Pintacuda, che introdusse l’esecuzione dello “Stabat Mater” di Boccherini presso la Chiesa Gentilizia di San Luca a Genova, in occasione del Venerdì Santo, 3 aprile 1953. Soprani Angelina Sciaccaluga Gallina e Jolanda Mingotti, tenore Riccardo Cami, direttore d’orchestra Giacomo Costa].
Nulla di più profondamente patetico ed umano della Sequenza “Stabat Mater”, cantico passionale dell’anima commossa nel ricordo del materno patimento della Vergine ai piedi della Croce, ambascia e singulto accorato dello spirito che, pentito ed umiliato, invoca su di sé i tormenti dell’Uomo crocifissa
Questo magico poema di pianto è attribuito a Jacopone da Todi.
La liturgia cattolica accolse su tale testo due melodie medioevali: una, di forma assai semplice, fa parte degli Inni, l’altra è una delle cinque Sequenze che la Chiesa conserva ancora.
Dal Quattrocento in poi numerose sono le composizioni musicali sul testo dello Stabat.
La prima di una certa importanza è quella di Josquin Després (1480) a 5 voci, su un tema deriato da una Canzone profana francese.
Nel Cinquecento campeggiano i due Stabat del Palestrina, uno a 8 voci (doppio Coro), uno a 12 voci. Seguono, fra i più celebri autori di Stabat, il D’Astorga, lo Steffani, il Caldara, Vivaldi, Pergolesi, Boccherini, Rossini, Verdi (nei 4 Pezzi sacri), Liszt (nell’Oratorio Cristo), Dvorak e infine Szymanowsky.
Lo Stabat di Boccherini si distingue da tutti gli altri per la parsimonia e semplicità di mezzi con cui il musicista cantò la straziante tragedia cristiana della Croce. Due Soprani, un Tenore e un quintetto d’archi bastano al compositore per esprimere in tutta la sua intensità il contenuto tragico del testo. Ma oltre che per la povertà dei mezzi, quest’opera si distingue per la castigata purezza classica dello stile musicale. Non potenza diaccenti drammatici, quali si rivelano, ad esempio, nello Stabat di Rossini, ma la delicata e patetica mestizia lirica che già era stata di Pergolesi; liricità affettuosa, aliena dalla grandiosità di linee e dal profondo misticismo dell’arte classica religiosa.
Boccherini scrisse lo Stabat nel 1800; negli ultimi anni della sua vita, colma di lavoro, di amarezze, di disinganni, quasi presago della fine ormai prossima. Qualcuno definì questo suo sublime poema: «il canto del Golgota dell’uomo sofferente».
Il primo versetto «Stabat Mater» reca come indicazione di movimento la espressione Adagio flebile; un lieve e realmente flebile movimento di quartine dei violini, adoperato discontinuamente, sottolinea lo stupendo terzetto vocale che con accenti di struggente tenerezza piange il dolore comune con la Madre del Signore.
Più mosso e variato nei movimenti è il Cujus animam con la parte solistica affidata al primo dei due Soprani.
Il Quae maerebat è intonato dal secondo Soprano ed ha il medesimo incedere del pezzo precedente, ma con più spiccata varietà ritmica e più marcato senso di angoscia. All’Adagio iniziale e alla sua tipica rellgiosità ci riporta invece il breve Quis est Homo, specie di intervallo narrativo che contribuisce a sottolineare e a mettere in rilievo l’importanza del versetto seguente iniziantesi con le parole Pro peccatis. Questa parte è affidata al solo Tenore.
Siamo così giunti alla pagina centrale, quella più drammatica dello Stabat; qui ha inizio il primo degli episodi a duetto e a terzetto vocale. Preceduti da un ampio e disteso solo del Violoncello, i due Soprani attaccano insieme, a terze, l’Eja Mater: la tenerezza, lo struggimento, l’affetto di questa invocazione è tra gli accenti più notevoli della composizione.
Nei Tui nati vulnerati, insieme ai Soprani canta il Tenore; l’animazione e l’impeto concorde con cui le voci iniziano il versetto si placano nel solo del Tenore alle parole Fac me vere tecum flere; riprendono però con slancio alla frase Juxta crucem tecum stare, culminando con un bellissimo fugato che sl conclude con una energica e sostenuta coda orchestrale.
Seguono poi i versetti Virgo virginum e Fac ut portem, ambedue per Soprani soli: sono raccoglimenti pensosi, meditazioni profondamente accorate in cui la somma di pathos esplode nella invocazione Fac me tecum plangere.
I due Soprani ed il Tenore si riuniscono ancora nel versetto Fac me plagis vulnerari per chiedere, in un comune desiderio di martirio, di inebriarsi nel dolore, evocando per i loro cuori le piaghe del Crocifisso.
Pur indulgendo alla moda del tempo nell’adornare il canto con numerose fioriture melismatiche, nessuna enfasi, né magniloquenza né mistica esaltazione traspare nella espressione musicale; la forza drammatica delle parole è invece sostenuta da una commozione intima e sincera.
Nell’ultima parte, Quando corpus morietur, il musicista raggiunge l’apice della potenza espressiva, esaltando l’ascensione dell’anima di Cristo al cielo, nella gloria e nella gioia eterna del Paradiso. «Un non so che di celestiale – così prorompe l’erudito Marchese Antonio Mazzarosa che curò la prima esecuzione in Italia dello Stabat boccheriniano – traspira nelle ultime parole Paradisi gloria, dove l’animo contristato è scosso ad un tratto e sollevato con un quasi sovrumano concetto alle dolcezze dell’empireo».
SALVATORE PINTACUDA