Nell’Anabasi, diffusa da Senofonte sotto lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa (cfr. Elleniche III 1, 2), l’autore parla di sé in terza persona (come farà Cesare nei suoi “Commentarii”).
Non dovette trattarsi di un semplice espediente letterario; forse l’autore comprese che un memoriale redatto in prima persona non avrebbe avuto la necessaria efficacia per controbattere le versioni di altri reduci (ad es. lo spartano Sofeneto).
Inoltre, l’autore aveva un chiaro fine apologetico: «Le gesta di quell’esercito di irregolari serpeggiante tra gole e guadi, tra imboscate e saccheggi non avevano certo destato simpatia: basti pensare al giudizio durissimo di un autorevole contemporaneo come Isocrate, il politologo più noto dell’Atene del tempo, il quale definiva i Greci che avevano seguito Ciro, e dunque lo stesso Senofonte, “gentaglia, persone che non potevano più vivere nelle rispettive città” (Panegirico 146). Ovvio dunque che l’apologia, l’enfasi sul proprio operato, sulle proprie gesta, tanto più riuscisse convincente quanto più si fosse costruita l’illusione di una oggettività. Di qui l’invenzione di un Siracusano che parla di “un certo Senofonte Ateniese”, mettendone in luce la prodigiosa bravura, lungimiranza, tolleranza, saggezza nel comando» (L. Canfora, Senofonte e i sergenti nella neve, “Corriere della Sera” 16 dicembre 2002).
Ecco il brano (III 1, 4-10) nella traduzione di Carlo Carena: «Vi era nell’esercito un ateniese, di nome Senofonte, che seguiva la spedizione senza essere né un generale né un capitano né un soldato. Era stato Prosseno, a lui legato da lunga data con rapporti di ospitalità, che lo aveva indotto a lasciare la casa con la promessa, se veniva, di fargli conoscere Ciro, «un amico, – gli scrisse, – a me più caro della mia stessa patria». Senofonte, dopo aver scorsa la lettera di Prosseno, si consultò con Socrate di Atene sull’opportunità o meno d’intraprendere quel viaggio. Socrate intravvide che il diventare amico di Ciro avrebbe messo quell’uomo a disagio in patria, ove tutti erano convinti che Ciro avesse aiutato i Lacedemoni nella guerra contro Atene; quindi consigliò Senofonte di recarsi a Delfi per consultare il dio a proposito del viaggio. Senofonte va e pone ad Apollo questa domanda: «Vorrei sapere a quale nume devo offrire sacrifici e preghiere perché il viaggio che ho in mente di compiere si compia nel migliore dei modi, e dopo un felice esito me ne torni sano e salvo». Apollo gli indicò gli dèi, cui doveva sacrificare. Ma quando Senofonte tornò a casa ed ebbe riferito a Socrate la risposta dell’oracolo, Socrate lo biasimò per il modo come si era condotto: anziché chiedere preventivamente se gli conveniva partire o rimanere a casa, aveva deciso per conto proprio che era un viaggio da fare, quindi aveva chiesto soltanto quale era il modo migliore per farlo. «Comunque, – soggiunse, – poiché ormai la domanda è fatta, devi eseguire tutto ciò che il dio ti ha ordinato». Senofonte sacrificò agli dèi che gli erano stati indicati da Apollo e salpò. A Sardi incontra Prosseno e e Ciro, ormai in procinto di iniziare la marcia verso l’interno del paese. Dopo la presentazione a Ciro, Prosseno insistette perché rimanesse con loro, e Ciro fece altrettanto, assicurandolo che, appena conclusa l’impresa, l’avrebbe immediatamente rispedito a casa. Obiettivo della spedizione, gli venne detto, erano i Pisidi. Fu così che Senofonte entrò nell’impresa: raggirato, non da Prosseno, ben inteso, che non sapeva neppure lui, come del resto nessuno fra gli elleni, eccettuato Clearco, che si andava all’assalto del re. Solo quando entrarono in Cilicia, tutti capirono finalmente che obiettivo della spedizione era il re. Il viaggio li spaventò, e non ne avevano voglia; tuttavia i più proseguirono per rispetto uno dell’altro, e tutti di Ciro. Fra i rimasti era pure Senofonte».
Come si vede, Senofonte viene presentato con un polisindeto negativo (οὔτε στρατηγὸς οὔτε λοχαγὸς οὔτε στρατιώτης “né generale né capitano né soldato”); attraverso la triplice negazione Senofonte si presenta come una sorta di partecipante “esterno” alla spedizione, privo di ogni funzione militare. Sembra però strano che, in tale veste, egli possa poi (cfr. § 15) convocare tutti i locaghi e tener loro un discorso autorevole ottenendo da loro il comando.
Il Prosseno cui si fa riferimento, originario della Beozia, era stato allievo del sofista Gorgia; costui contava di procurarsi gloria e ricchezza seguendo Ciro piuttosto che militando al servizio della sua città, Tebe. Morì poi in seguito all’agguato di Tissaferne (cfr. Anabasi II 6, 16-20).
Merita attenzione il singolare scambio di idee fra Socrate e Senofonte, dal quale emerge la ferma intenzione di partire da parte di quest’ultimo: egli astutamente non chiede al dio “se” debba fare la spedizione o no, ma a quali dèi debba fare sacrifici per ottenere un felice esito. Senofonte era forse spinto dalla necessità di “cambiare aria”, perché compromesso con il passato regime dei Trenta tiranni.
Alquanto banalizzata appare (almeno vista con gli occhi di Senofonte) la religiosità del suo Maestro, ridotta a vuoto formalismo («devi eseguire tutto ciò che il dio ti ha ordinato»).
Dopo questa presentazione, il personaggio-Senofonte diventerà il protagonista del racconto, assumendo, in seguito ad un efficace discorso ai soldati, la leadership della ritirata.
A livello stilistico, si nota l’uso frequente del participio congiunto e del presente storico. Da rilevare anche una sorta di Ringkomposition fra l’incipit (Ἦν δέ τις ἐν τῇ στρατιᾷ Ξενοφῶν Ἀθηναῖος) e l’explicit (ὧν εἷς καὶ Ξενοφῶν ἦν); e non a caso il verbo συνακολουθέω ritorna sia all’inizio (§ 4) sia alla fine (§ 10).