“Edipo re” a Siracusa: il mondo è fatto a scale

“Il mondo è fatto a scale, chi le scende e chi le sale”. Non è detto che chi sta più in alto resterà sempre al di sopra degli altri. Può capitare che egli debba discendere ad uno ad uno i gradini per finire più in basso di tutti.

Questo accade nell’attuale rappresentazione dell’“Edipo re” di Sofocle a Siracusa, per la regia di Robert Carsen. Nella scena finale il potente re di Tebe Edipo, dopo avere scoperto di avere inconsapevolmente ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta, scende nudo, a tentoni, i gradini della grande scalinata in calcestruzzo che costituisce la scena del dramma, sprofondando dalle vette del potere e della felicità agli abissi dell’abiezione e dell’orrore.

L’“Edipo re”, capolavoro assoluto del teatro mondiale, fu giudicato da Aristotele come il dramma più perfetto di tutti.

Il destino di Edipo, che senza saperlo uccide suo padre Laio e sposa sua madre Giocasta generando da lei dei figli incestuosi, è un potente “esempio” (“paràdeigma”, παράδειγμα) per gli altri uomini, atto a stroncare in loro ogni superbia (la “hybris” – ὕβρις – dei Greci) e ogni illusoria sicurezza. Per Sofocle, a differenza di quanto sosteneva in quegli anni Protagora, l’uomo non è affatto “misura di tutte le cose”; è invece una creatura limitata ed effimera, che non può pensare di attingere l’essenza delle cose.

Anche l’uomo che si crede più sapiente (come Edipo, che era stato l’unico a risolvere l’enigma della Sfinge liberando Tebe da questo mostro) possiede solo una sapienza effimera, adatta forse a risolvere indovinelli ma assolutamente distante dalla vera sapienza, che è quella di Tiresia, l’indovino cieco, ispirato direttamente dagli dèi. Chi vede, non vede; chi non vede, vede e sa più di chi vede.

Sono appena tornato da Siracusa, ove ho assistito alle rappresentazioni di “Ifigenia in Tauride” (per la regia di Jacopo Gassmann) e “Edipo re” (regista il canadese Robert Carsen).

Per oggi vorrei segnalare alcune impressioni su quest’ultimo spettacolo, particolarmente efficace e meritatamente acclamato dall’attentissima platea siracusana.

È l’ottava volta in 100 anni che l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) propone la rappresentazione dell’“Edipo re”. La prima volta era stata nel 1922 con la scenografia liberty di Duilio Cambellotti e la direzione artistica di Ettore Romagnoli; il protagonista fu allora interpretato da Annibale Ninchi. La tragedia sofoclea tornò a Siracusa nel 1958 (regia di Guido Salvini e magistrale interpretazione di Salvo Randone) e poi ancora nel 1972 (regia di Alessandro Fersen, traduzione di Salvatore Quasimodo e Glauco Mauri nel ruolo del protagonista), nel 1992 (regia di Giancarlo Sepe e Giancarlo Sbragia protagonista), fino alle più recenti rappresentazioni del 2000 (Gabriele Lavia regista e protagonista), 2004 (regia Roberto Guicciardini e protagonista Sebastiano Lo Monaco) e 2013 (regia Daniele Salvo e Daniele Pecci protagonista).

Quest’anno la regia è stata affidata al canadese Robert Carsen, che definisce quest’opera sofoclea come “il dramma dei drammi” e aggiunge: «Aperto a tante letture diverse quanti sono i registi, i designer e gli attori, l’opera può essere letta come un’istruzione fatalistica all’uomo sulla necessità di accettare un destino ingiusto, ma può anche essere vista come una celebrazione dell’indipendenza dello spirito dell’uomo, che lo induce a resistere a quel destino e a combatterlo, per quanto insensato o inutile ciò possa essere. […] Nel corso dell’opera Edipo scopre di non sapere chi è. Ma c’è qualcuno di noi che sa davvero chi è? Non passiamo le nostre vite, per lunghe o brevi che siano, a cercare di scoprirlo? Possiamo essere ciò che il nostro DNA ci rende, ma siamo anche ciò che scegliamo di essere, ciò che vogliamo essere, ciò che abbiamo bisogno di essere».

Carsen ha ambientato la tragedia in un tempo senza tempo, che sembra l’oggi in cui viviamo (il foltissimo coro vestito di nero entra in scena indossando le mascherine FFP2, Edipo e Creonte indossano burocratici abiti neri con cravatta) ma potrebbe essere ieri (il tempo di Sofocle) o domani (alla prossima epidemia).

Il coro ai piedi della scalinata

La scena (realizzata da Radu Boruzescu) è costituita, come abbiamo accennato, da un’enorme monolitica gradinata in calcestruzzo, che conduce dalla sottostante piazza urbana a un ingresso del palazzo (invisibile in alto). Soltanto il “triumvirato” che regge il potere (Edipo, Giocasta e Creonte) ha il diritto di salire tutti i gradini della scala e di entrare nel palazzo.

Da questa scala scende anzitutto Edipo, interpretato dal bravissimo Giuseppe Sartori, che dapprima si muove con sicurezza, nel suo elegante abito nero da manager, come deve essere un leader illuminato e moderno (un look alla Zelensky evidentemente non sarebbe politicamente corretto…). Ai piedi della scala, lo invocano gli ottanta elementi del coro, muniti di mascherina Ffp2, che sono entrati in scena accompagnati da una funerea percussione ripetuta innumerevoli volte; tengono in braccio degli stracci neri (che evocano corpi straziati dalla peste), in un cadenzato corteo funebre. Il coro rappresenta il popolo di Tebe, tormentato dalla pestilenza e dalla carestia, ma ancora una volta fiducioso in quell’Edipo che lo ha un tempo liberato dalla terribile Sfinge.

Edipo (Giuseppe Sartori) sulla scalinata

Edipo ha già provveduto a mandare suo cognato Creonte a consultare l’oracolo di Delfi: e Creonte (l’attore Paolo Mazzarelli) arriva, elegante burocrate accompagnato da due camerieri in livrea e guanti bianchi e con una valigetta notarile. In un continuo saliscendi dell’imponente scalinata (31 gradini ripidissimi) Creonte svela ad Edipo che, per debellare la peste, è necessario scoprire l’assassino del precedente re di Tebe, Laio.

Inizia così la scrupolosa indagine di Edipo, che scaglia un terribile bando contro il colpevole e decide anzitutto di consultare l’indovino Tiresia. Questi (ottimamente interpretato da Graziano Piazza) con i suoi ciechi occhi bianchi appare prima reticente, ma poi – di fronte agli insulti e alle immotivate accuse di Edipo –  finisce per svelare la verità che voleva nascondere, proclamandola a chiare lettere in un impressionante stato di “trance”: «Io ti dico: quell’uomo che cerchi da tempo per l’omicidio di Laio, con minacce e con proclami – quell’uomo è qui, straniero solo a parole. […] Si scoprirà che è fratello e padre dei figli con cui vive, che è figlio e sposo della donna che l’ha generato, e che è l’assassino del padre con cui ha condiviso la semina» (l’efficace e limpida traduzione è di Francesco Morosi).

Graziano Piazza nel ruolo di Tiresia

Edipo però non comprende e non accetta le parole di Tiresia, anzi sospetta un complotto ai suoi danni, ordito dall’indovino insieme con il cognato Creonte, che accusa apertamente senza alcuna prova concreta; e Creonte ha buon gioco a dimostrare la sua assoluta mancanza di ambizione e la sua propensione ad accontentarsi di un ruolo di “eminenza grigia” dietro le quinte. Sarà solo l’arrivo di Giocasta (interpretata dalla brava Maddalena Crippa), l’unica vestita in abito bianco, a troncare lo scontro fra i due uomini e a dialogare poi con il marito.

Qui il regista crea un momento “hollywoodiano” quando arrivano due camerieri in guanti bianchi e i due sposi bevono un bicchierino mentre ricostruiscono gli eventi; né manca un’allusione all’inevitabile background psicanalitico, allorché Edipo e Giocasta si concedono qualche appassionata effusione.

Quando giunge in scena il messaggero di Corinto (interpretato con sano realismo popolaresco da Massimo Cimaglia), che annuncia la morte di re Polibo e sembra diradare gli incubi di Edipo, inizia in realtà il cammino verso il terribile finale: il messaggero rivela infatti a Edipo che non è figlio di Polibo, ma che era stato consegnato da lui stesso al re di Corinto; a sua volta il messo aveva ricevuto il bambino da un pastore sul Citerone. Giocasta è la prima a capire: ed esce di scena risalendo freneticamente la gradinata, per andare a impiccarsi nell’invisibile palazzo reale.

La folla porta in trionfo Edipo (come un allenatore che abbia vinto la Champions League), in un rito estatico e dionisiaco che vorrebbe festeggiare la scoperta delle sue umili origini dal popolo di Tebe.

Ma sarà l’interrogatorio del pastore di Laio (Antonello Cossia) a far cadere gli ultimi dubbi; e il disperato Edipo potrà solo fare il terribile bilancio complessivo sulla sua esistenza: «Io, che sono nato da chi non dovevo, mi sono unito a chi non dovevo, ho ucciso chi non dovevo».

Seguirà l’atroce racconto, da parte di un messaggero (Dario Battaglia, senza infamia e senza lode) del suicidio di Giocasta e dell’autoaccecamento di Edipo. Questi ricomparirà in cima alla scalinata completamente nudo, grondante di sangue dalle orbite, rantolante e disperato.

Qui l’interpretazione di Sartori è di alto livello: il re nudo, che poi si ricopre con l’abito bianco di Giocasta (come a riunirsi anche fisicamente alla madre che lo ha generato), scende a uno a uno a tentoni i gradini, insanguinato, a quattro zampe come un ragno o un insetto da schiacciare, in una desolante Via Crucis discendente; poi, reggendosi sul bastone datogli per pietà da Creonte (e che era stato di Tiresia), si rialza per risalire lentamente la scalinata della cavea in mezzo agli spettatori, in un angosciante calvario che potentemente visualizza l’abiezione di una condizione umana piombata nell’abisso della rovina. Una scena davvero toccante, che ha commosso e coinvolto potentemente l’attentissimo pubblico siracusano.

Edipo cieco discende la scalinata

Così il regista ha visualizzato potentemente la “caduta” verticale dell’uomo che sembrava il più felice del mondo; ed è scelta registica interessante l’inganno malevolo di Creonte, che sceglie a caso due ragazze dal coro e le avvicina a Edipo facendogli credere che siano le sue figlie Antigone e Ismene.

In definitiva, uno spettacolo coinvolgente, ottimamente diretto e ben interpretato, che si basa – certo – sulla potenza inimitabile di un testo straordinario, ma ha il merito di ripensarlo in modo mai banale e di renderlo anzi toccante e coinvolgente in ogni momento.

P.S. 1: Una domanda agli organizzatori. In entrambe le serate gli spettacoli, previsti per le 19,15, sono iniziati alle 19,40. Perché? Si può capire un ritardo di una decina di minuti, ma non si riesce a comprendere un ritardo così immotivato: fra l’altro quasi tutti gli spettatori avevano già preso posto e una simile dilazione finisce per dare ragione agli immancabili ritardatari (categoria protetta e privilegiata qui in Sicilia). Nessuno comunque ha protestato; l’aura magica di Siracusa, la suggestione del teatro greco, la concentrazione e la motivazione degli spettatori resistono anche alle attese più arbitrarie.

P.S. 2: Ricordo che una volta interferivano con il silenzio della magica cavea siracusana solo i voli degli uccelli, qualche fischio anacronistico di treno e qualche rombo di motore; durante i due spettacoli che ho visto si sono aggiunti invece, in entrambe le serate,  gli insistenti rintocchi di un carillon religioso proveniente dal vicino santuario, che si sono protratti per quasi un minuto (con effetto straniante rispetto alla vicenda rappresentata): ma non si potrebbe dire al parroco di rinviare ad altro orario la “carillonata” serale?

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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