Per due anni, dal 1950 al 1952, mio padre visse da solo a Genova, come docente di Storia della Musica e direttore della biblioteca al conservatorio “Paganini” (allora Liceo musicale comunale); in quel periodo restò mestamente lontano dalla sua fidanzata: mia madre, infatti, bagherese come lui, viveva allora a Benevento, dove aveva iniziato la sua carriera di insegnante di Matematica.
Totò e “Pupetta” (così era chiamata mia madre per la sua bellezza) si erano fidanzati ai primi di ottobre del 1950; subito dopo si erano dovuti separare, chiamati dai loro impegni di lavoro.
In quel biennio si incontrarono poche volte e fuggevolmente: mio padre affrontava a volte trasferte faticosissime pur di stare poche ore con la sua Pupetta; solo in estate e a Natale avevano modo di stare insieme per pochi giorni, in vacanza a Bagheria, sempre ovviamente nell’ambito delle loro famiglie e – temo per loro – con pochissimi momenti di vera “privacy”.
In quei due anni i due fidanzati si erano scambiati moltissime lettere, esternandosi spesso il loro rammarico per la forzata lontananza. Le conservo ancora: sono testimonianze, commoventi e per me struggenti, di un reciproco affetto profondo, più forte dei chilometri, che anziché diminuire aumentava nel tempo (forse Modugno si ispirò a loro con la sua famosa canzone “La lontananza”…).
Finalmente, il 3 settembre 1952 i due “ziti” poterono sposarsi nella Chiesa del S. Sepolcro a Bagheria, festeggiando poi la sera con un trattenimento nella villa di mia zia Nunzia in zona “Palagonia”. Dopo un viaggio di nozze a Napoli e Roma, vennero a vivere a Genova, in un piccolo appartamento al primo piano nella tranquilla via Pastrengo, non lontano da piazza Corvetto.
Mia madre mi raccontava sempre di essersi innamorata subito di Genova, vincendo ben presto i precedenti legittimi timori per il trasferimento in una città così lontana dal suo paese natale.
Nel 1953, pochi mesi dopo il matrimonio, mio padre acquistò la sua prima cinepresa, un modello Paillard-Bolex 8 millimetri.
Era sempre stato appassionato di fotografia (in un’epoca in cui pochi lo erano) e aveva scattato molte foto in tantissime occasioni (persino in guerra, quando era soldato in zona di operazioni prima in Corsica e poi in Sardegna).
Il suo sogno però era quello di girare dei filmini, ritenendo che potessero rappresentare nel tempo un ricordo più vivo e tangibile dei momenti della nostra vita.
Allora i filmini 8 mm, quasi sempre in bianco e nero (a colori erano un lusso costoso), duravano circa tre minuti ciascuno (alla fine, in coda alla pellicola, comparivano dei puntini bianchi); per svilupparli si dovevano inviare a Milano tramite un fotografo di fiducia (il nostro fu il simpaticissimo sig. Raoul Carlotti di Corso Sardegna): in genere entro 3-5 giorni venivano riconsegnati sviluppati.
Da quell’anno i filmini hanno accompagnato puntualmente tutta la vita della nostra famiglia, eternandone le ricorrenze e i momenti; e io, come ho avuto modo di mostrare anche qui, sono stato fotografato e filmato fin dal primo giorno di vita (fortuna credo rara per quei tempi).
La cinepresa Paillard-Bolex è ancora conservata come una reliquia nel mio studio, accanto a una più moderna e meno preziosa telecamera VHS degli anni Ottanta.
Prendendola in mano, mi pare di rivedere mio padre che la tiene davanti all’occhio sinistro chiudendo l’altro, girando spesso la manopola laterale per “darle la corda” e curando l’inquadratura, la stabilità dell’immagine e l’esposizione (mai il sole in faccia). A volte sembrava un vero regista: abile, creativo, sapiente nell’organizzazione delle scene e poi nel montaggio (fatto con le prime antidiluviane “moviole”).
Le pellicole durante la proiezione potevano spezzarsi e occorreva allora incollarle con una particolare colla Ferrania; non esisteva alcuna possibilità di farne delle copie. Ci voleva poi una pazienza certosina per “montare” le scene, eliminando quelle venute male o buie (non esisteva ancora l’esposimetro incorporato), per preparare i “titoli” (che potevano essere sovraimpressi riavvolgendo in parte la pellicola alla cieca, calcolando i tempi e senza poter controllare – come ora – le immagini in un display), per ordinare e archiviare i filmini (conservo elenchi scritti a mano da papà, che ne precisano la data, il contenuto, la durata).
Con gli anni vennero il super 8, la “pista” per sonorizzare i filmini, i proiettori sonori “bipasso” (8/super 8), poi il VHS.
Lì si fermò mio padre, che non poté vedere l’epoca digitale: ricordo che, negli ultimi mesi di vita, guardava con stupore (e anche un po’ di rabbia) i primi CD audio, rammaricandosi di non averne potuto disporre nei suoi quarant’anni di insegnamento musicale.
Girò il suo ultimo filmino nel Natale 1994; e siccome la malattia già gli rendeva le cose difficili, fui io a riprenderlo in una lunga inquadratura, tristemente consapevole che sarebbe stata l’ultima.