Publio Papinio Stazio visse in epoca flavia e fu attivo soprattutto al tempo dell’imperatore Domiziano (81-96).
Nacque a Napoli tra il 40 e il 50 d.C.; era figlio di un celebre grammatico e retore, di condizione sociale non molto elevata. Dopo i primi successi in gare poetiche a Napoli e Alba, giunse a Roma, ove fu sotto la protezione dei personaggi più in vista del suo tempo, che adulò volentieri nelle sue opere.
Fu poeta di professione, di vena facile e spontanea; si esibì con successo nelle sale di recitazione (luogo ormai destinato alla fruizione delle opere letterarie, che ivi venivano lette pubblicamente dagli autori).
Per vivere, dovette adattarsi alla composizione di facili poesie d’occasione, spesso su commissione; compose ad esempio libretti per i pantomimi, che erano spettacoli di musica e danza (fabulae salticae), basati su argomenti prevalentemente mitologici; celebre fu l’Agave, scritta per conto dell’attore Paride. Dedicò a Domiziano un Bellum Germanicum, in cui narrava le imprese dell’imperatore contro i Germani e i Daci; ne ottenne in cambio una corona d’oro e un piccolo podere presso Alba. Un insuccesso ai Ludi Capitolini lo convinse ad abbandonare Roma per tornare a Napoli, ove morì intorno al 96 d.C.
In età flavia, e soprattutto al tempo di Domiziano, si ebbe un ritorno alla tradizione del poema epico, tanto che lo stesso imperatore aveva composto due poemi. Tuttavia l’epos era ridotto a un genere magniloquente ed enfatico, adulatorio nei confronti del potere imperiale, privo dell’altezza d’ispirazione cui l’aveva condotto Virgilio con la sua Eneide e lontano anche dalla forte tensione ideologica dell’epos di Lucano (autore, in età neroniana, di un Bellum civile).
Stazio si cimentò due volte nel genere epico; la prima opera che gli diede grande fama fu il poema Tebaide, in dodici libri, realizzato in dodici anni di lavoro (dall’80 al 92) e dedicato a Domiziano.
Il poema narra la lotta tra i fratelli Eteocle e Polinice (“fraternae acies”), che si contendono il trono del loro padre Edipo.
Stazio si ispira, più che alla poesia greca ciclica, ad Antimaco di Colofone (V-IV sec. a.C.), autore di una Tebaide in 24 libri, alle tragedie greche (I sette contro Tebe di Eschilo, l’Antigone di Sofocle, Le Fenicie e Le Supplici di Euripide), al poema di Apollonio Rodio (Le Argonautiche), al teatro latino (Accio e soprattutto Seneca), a Ovidio.
È notevole l’influsso dell’epos omerico-virgiliano, di cui Stazio riprende tutti i principali luoghi comuni: concilii di dei, aristeiai di eroi, duelli, profezie, giochi funebri, discese nell’Ade, interventi di dèi, cataloghi di eroi, sogni ecc.
L’ammirazione di Stazio per Virgilio è altissima, ma la Tebaide è ben lontana dalla sensibilità virgiliana: vi domina invece la nuova sensibilità del I secolo d.C., caratterizzata da un intenso patetismo, da una forte componente retorica e quasi “barocca”, dal gusto per le digressioni erudite, per le tinte “forti”.
Manca inoltre nel poema un vero protagonista positivo (tali infatti non sono Eteocle e Polinice); predominano invece i toni tragici e tenebrosi e gli interessi psicologici.
Nel poema di Stazio, Antigone compare nella parte conclusiva (libri XI-XII) per assicurare la sepoltura al fratello ma, a differenza della tragedia sofoclea, qui viene aiutata dalla cognata Argia, vedova di Polinice. Le due donne riescono a porre il corpo di Polinice sullo stesso rogo di Eteocle e assistono al prodigio delle fiamme che si scindono e continuano a combattere, perpetuando l’odio inestinguibile che li ha dominati da vivi:
“Guarda! Vedi come la fiamma si scosta e tuttavia torna a scontrarsi con l’altra? Vive ancora quell’odio immenso, vive! La guerra non ha concluso niente. Sciagurati, mentre voi continuate a combattervi, è sempre lui, Creonte, il vincitore!” (XII 440-443, trad. Fornaro).
Stazio inserisce altre differenze sostanziali:
- il bando di Creonte vieta la sepoltura di tutti i cadaveri dei nemici di Tebe, per cui il problema è ben più vasto e mobilita tutte le donne degli Argivi;
- manca lo scontro etico-politico, dato che Antigone è mossa solo dall’affetto di sorella, mentre Creonte è un tiranno spinto dal furor e da una sfrenata sete di potere.
Antigone, al pari della cognata, sembra agire in preda a forze sovrannaturali e passioni smisurate piuttosto che in base ad una volontà lucida e razionale.
Nel breve brano seguente, Antigone e Argia, dopo essere state scoperte nel tentativo di seppellire Polinice, sono condotte davanti a Creonte. Le due donne si contendono la colpa, l’una sostenendo di aver agito per affetto fraterno, l’altra per amore nei confronti del marito.
Ciò che in Sofocle viene fatto per affermare un principio etico, qui sembra compiuto solo per dimostrare platealmente l’intensità di un sentimento.
L’epica di Stazio si distingue per la sua forte carica di pathos, che lo accomuna allo stile delle recitationes, di cui il poeta era apprezzato autore.
Ecco il testo latino dei versi XII 456-463, seguito dalla traduzione di Laura Micozzi:
Ambitur saeva de morte animosaque leti
spes furit: haec fratris rapuisse, haec coniugis artus
contendunt vicibusque probant: “Ego corpus”, “ego ignis”,
“Me pietas”, “Me duxit amor”. Deposcere saeva
supplicia et dextras iuvat insertare catenis.
Nusquam illa alternis modo quae reverentia verbis,
iram odiumque putes; tantus discordat utrimque
clamor, et ad regem, qui deprendere, trahuntur.
“Aspiravano a una fine crudele e le animava la folle, coraggiosa speranza di morte; si contendevano così la colpa di aver sottratto l’una il corpo del fratello, l’altra quello dello sposo, e a vicenda ne adducevano le prove: -Sono stata io a rubare il cadavere-, -Io ho acceso il rogo-, – L’affetto mi ha spinto-, – Mi ha spinto l’amore -. Erano felici di implorare il supplizio spietato e di introdurre le braccia nelle catene. Il reciproco rispetto che poco prima era nei loro dialoghi, si sarebbe detto allora odio o collera; tale era il clamore del loro diverbio. Erano loro a trascinare dal re chi le aveva sorprese”.