La madre del camilleriano commissario Montalbano era morta quando lui era piccolo:
“di lei non s’arricordava nenti, tranne ‘na speci di luci biunna ‘n movimento, come le spiche di frumento quanno supra ci batte il soli, e delle spiche di frumento quanno supra ci batte il soli, e delle spiche di frumento cataminate dal vento faciva lo stisso fruscio liggero liggero” (“Riccardino”, p. 72).
Ne “La rete di proiezione”, proiettando un vecchio filmino 8 mm. che gli è stato prestato per risolvere un antico enigma, Montalbano ha un flashback fulminante che gli ricorda sua madre:
“Da ‘u sapi Dio quali profunnità del so ciriveddro gli era tornata ‘n menti ‘na scena di quanno era picciliddro, con so patre che proiettava un filmino superotto indove compariva di spalli, e sulo per un momento, la figura di so matre. L’unica immagini che lui possidiva di lei e che ogni vota gli si apprisintava accussì, stampata nella so testa: di spalli, coi lunghi capelli biunni che si cataminavano a leggio come il frumento sutta il vento” (p. 27).
Il piccolo Salvo non si dava pace, sentiva tutta l’ingiustizia di questa perdita incolmabile:
“Pirchì era toccato proprio a lui di pirdiri la madre? Non si nni capacitava. La zia gli aviva ditto che ‘u Signuruzzu aveva addiciduto accussì, senza motivo, pirchì chista era la so volontà. E lui aviva stabilito di non prigarlo cchiù a chisto Signoruzzu. Che lo prigava a fari se doppo quello faciva come gli passava per la testa?” (“Riccardino”, p. 73).
Nel romanzo “Il ladro di merendine”, in un passo struggente, il commissario si confida col piccolo François e gli fa capire quanto gli sia mancata sua madre: “Gli confidò cose che mai aveva detto a nessuno, manco a Livia. Il pianto sconsolato di certe notti, con la testa sotto il cuscino perché suo padre non lo sentisse; la disperazione mattutina quando sapeva che non c’era sua madre in cucina a preparargli la colazione o, qualche anno dopo, la merendina per la scuola. Ed è una mancanza che non viene mai più colmata, te la porti appresso fino in punto di morte…” (p. 155).
Nel recentissimo “Riccardino” Montalbano ricorda l’usanza siciliana di far trovare ai bambini, la mattina del 2 novembre, i regali portati nottetempo dai defunti. E ripensa a un episodio della sua infanzia, struggente nella sua malinconia, che viene raccontato in un brano splendido e struggente.
Poco dopo la morte della madre, il primo di novembre il padre di Salvo viene a trovarlo e lo sveglia, con grande gioia del bambino:
“Sò patre gli aviva ditto che era tornato ‘n paìsi, macari se non era duminica, pirchì il jorno appresso, che era il jorno dei morti, sarebbiro annati ‘nzemmula al camposanto ad attrovari ‘a mamà. E gli spiegò ‘na cosa che non capiva: i morti, nella notti tra l’uno e il dù di novembriro, dal celo scinnivano ‘n terra e portavano tanti regali ai picciliddri che erano stati boni e non avivano fatto crapicci. Bastava pigliare un canistro e mittirlo sutta al letto: mentre che tutti dormivano, arrivavano i morti e ‘nchivano il canistro di giocattoli e cosi duci. Ma ai morti piaceva macari sgherzare: doppo averi inchiuto il canistro, lo pigliavano e l’annavano ad ammucciare. Epperciò abbisognava, appena susuto, annarlo a circari”.
Il padre chiede a Salvo quale regalo desidera dalla mamma («Tu che vuoi che ti porti ‘a mamà?); infatti “per sò patre, quanto per lui, era logico che a portare i regali non poteva esseri che lei”.
Il piccolo risponde senza esitare: «Un triciclo»; quindi va a letto emozionato, perché spera di poter rivedere la sua mamma, di cui ha solo un vago e luminoso ricordo:
“Di subito gli vinni un pinsero: se arrinisciva a ristari vigliante , sicuramente avrebbi veduto a sò matre. Di lei non s’arricordava nenti, tranne ‘na speci di luci biunna ‘n movimento, come le spiche di frumento quanno supra ci batte il soli, e delle spiche di frumento cataminate dal vento faciva lo stesso fruscio liggero liggero. […] Finalmente avrebbi potuto vidiri ‘a mamà, s’appromittì di ristari vigliante”.
Però il bambino è preoccupato:
“se ‘a mamà s’addunava che lui non era ancora addrummisciuto, capace che si nni tornava novamenti ‘n celo senza farisi vidiri da lui. Abbisognava perciò fari finta di dormire, come ai gatti che pari che tenno l’occhi chiusi e invece contano le stiddre”.
Il piccolo Salvo tenta stoicamente di resistere, di restare sveglio; ma senza fortuna:
“Arrisistì tanticchia con l’occhi a pampineddra e di colpo, senza addunarisinni, calumò nel sonno”.
L’indomani mattina, al suo risveglio, Salvo trova un grande canestro che contiene “un triciclo russo fiammanti, tutto circunnato da cosi duci”. E al cimitero va con il triciclo, incontrando tanti altri bambini che giocano come lui con i regali “dei morti”. Ma mentre gli altri bambini si chiamano fra loro, ridono felici e trasformano un giorno triste in un giorno di festa, Salvo pedala per i vialetti del camposanto:
“pedalava e arripitiva: «Grazie, mamà, grazie, mamà…». E gli viniva di chiangiri e di ridiri”.
Colpisce, in questo bellissimo episodio, la delicatezza nella descrizione della psicologia del bambino, che ha subìto una terribile disgrazia e si rivela sensibile e bisognoso d’affetto; al tempo stesso, emerge da qui la remota spiegazione di tante caratteristiche del futuro commissario: la solitudine connaturata nella sua esistenza, l’abitudine alla riflessione, l’estrema sensibilità, la determinazione ma anche la fragilità.
Il piccolo Salvo, rimasto orfano di madre, era stato allevato dal padre; ne “Il ladro di merendine” il commissario analizza, seduto sullo scoglio “a ripa di mare” a lui tanto caro, il rapporto con il genitore:
“era stato, questo Montalbano non poteva negarlo, un genitore sollecito e affettuoso. Aveva fatto di tutto perché la perdita della madre gli pesasse il meno possibile. Le fortunatamente poche volte in cui, da adolescente, era caduto malato, suo padre non era andato in ufficio per non lasciarlo solo” (p. 204).
Ma quando il padre “si era portato in casa la nuova moglie”, di nome Giulia, Salvo “ne era rimasto irragionevolmente offiso” (id.); conseguentemente, “tra i due si era alzato un muro; di vetro, certo, ma sempre muro” (id.); avevano quindi finito per diradare i loro incontri, limitati a una-due volte l’anno. In queste occasioni il padre di Montalbano, rimasto nuovamente vedovo e proprietario di un’azienda vinicola, portava al figlio qualche cassetta di vino e si tratteneva mezza giornata col figlio, per poi ripartire.
Ne “Il ladro di merendine” Montalbano apprende la triste notizia della malattia di suo padre da una sgrammaticata lettera del socio di lui, tale Arcangelo Prestifilippo (pp. 201-202). Il commissario, sconvolto, lascia l’ufficio, si compra un cartoccio di “càlia e simenza” e inizia la sua abituale passeggiata sul molo, fino allo “scoglio grosso” vicino al faro. In questa occasione ripercorre mentalmente il rapporto con il padre:
“Forse c’era stata tra loro due una quasi totale mancanza di comunicazione, non riuscivano mai a trovare le parole giuste per esprimere vicendevolmente i loro sentimenti” (p. 204).
Nonostante il dolore, Montalbano decide di non andare a trovare il padre moribondo, perché “non era certo di poter sopportare l’orrore e lo spavento di veder morire suo padre” (id., p. 205).
Più in generale il commissario è profondamente turbato dalla vista degli agonizzanti:
“Un corpo morto non gli faciva ‘mpressione, era l’imminenza della morte che lo stravolgeva dal profondo, o meglio, da una profondità abissale” (“La pazienza del ragno”, p. 161).
E quando infine troverà il coraggio per andare a fare visita al padre, sarà ormai troppo tardi perché lo troverà morto da due ore (“Il ladro di merendine”, p. 245).