In questo periodo in cui sentiamo parlare di regole, di consigli, di raccomandazioni, di costrizioni, di violazioni, di morte, il mito di Icaro può ancora farci riflettere.
La storia è nota: lo scultore ateniese Dedalo, esiliato dalla sua città, si rifugiò a Creta, dove fu accolto dal re Minosse che gli commissionò il Labirinto per rinchiudere il mostruoso Minotauro. Minosse poi si adirò con Dedalo, che aveva aiutato Arianna (figlia del re) a salvare il suo amato Teseo, facendolo uscire illeso dal labirinto dopo aver ucciso il mostro; il re dunque punì Dedalo, rinchiudendolo, insieme al figlio Icaro (palesemente innocente), nel Labirinto che egli stesso aveva progettato. Dedalo decise allora di ribellarsi e di fuggire: costruì due paia di ali, uno per sé e l’altro per il figlio. Si raccomandò poi con Icaro di restargli sempre dietro durante il volo e di non avvicinarsi troppo ai raggi del sole perché le ali potevano staccarsi in quanto il calore avrebbe sciolto la cera. Ma siccome càpita che i figli non ascoltino i padri, Icaro durante il volo si allontanò da Dedalo.
La conseguenza è narrata in questi versi da Ovidio: “La vicinanza dei raggi del sole ammorbidisce la cera profumata che saldava le penne ed essa ben presto si scioglie: il ragazzo sbatte le braccia nude e, mancando delle ali, non può più captare l’aria e va a cadere in un mare azzurro che lo sommerge, soffocando il suo grido di invocazione al padre” (“Metamorfosi”, VIII 225-235).
Il mito di Dedalo e Icaro permette di riflettere sul senso della regola e della trasgressione:
1) le mura del labirinto sono il simbolo della regola imposta, della costrizione, di un lockdown intollerabile;
2) il volo di Icaro rappresenta la trasgressione, l’espressione del pensiero critico e divergente che si manifesta come bisogno di libertà, desiderio di conoscenza, affermazione di sé.
Questo celebre mito fu rappresentato moltissime volte dagli artisti (penso in particolare alle particolarissime rielaborazioni di Matisse e Chagall). Qui mi limito a ricordare un dipinto a olio su tavola del pittore olandese Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1558 circa e conservato nel Museo reale delle belle arti del Belgio (ne allego l’immagine).
Il tema è “La caduta di Icaro”, ma è trattato con estrema originalità: infatti a prima vista Icaro… non si vede!
In primo piano un contadino sta arando il terreno con un cavallo al giogo, mentre un po’ più sotto un pastore col suo cane pascola oziosamente un gregge di pecore. Un veliero passa lì vicino e altri si trovano nell’ampia veduta marina, tra scogli e città di mare, sorte all’ombra di ripide montagne. La maggior parte della tela è occupata da una visione di Messina, con lo stretto inondato di luce.
E Icaro dov’è? Icaro è relegato in un angolo del dipinto, in basso a destra, tra l’altro senza alcun elemento che lo faccia immediatamente riconoscere (come le ali di cera). Il giovane annaspa nell’acqua, a poche bracciate dalla riva, sotto gli occhi di un tale seduto sulla spiaggia, che sembra sporgersi pigramente e inefficacemente verso il luogo della sciagura; per di più, a poca distanza c’è una nave che potrebbe prestare soccorso ma non lo fa.
Un proverbio fiammingo dice: “nessun aratro si ferma perché muore un uomo”; e il dipinto sembra proprio ispirarsi a questa massima: per quanto si stia verificando un evento di gravità eccezionale, per quanto un uomo stia morendo e chieda aiuto, la vita degli altri uomini prosegue impassibile, senza stravolgimenti e senza coinvolgimenti.
Che cosa conta, oggi, la vita di un uomo? Abbiamo sentito per anni snocciolare i dati dei deceduti per il Covid senza battere ciglio; abbiamo fatto l’abitudine a questi dati e, più che addolorarci, quasi ci hanno annoiato e contrariato.
La luce abbagliante della natura circostante è un ulteriore sfregio al povero Icaro: non si dovrebbe perdere il respiro e andare in asfissia in una bella giornata di sole.