Venerdì 26 agosto scorso, nella bella e suggestiva cornice dell’Arena di Verona, ho assistito alla rappresentazione della “Turandot” di Puccini.
Gli interpreti principali erano la soprano ucraina Oksana Dyka (Turandot), il tenore sudcoreano Yonghoon Lee (Calaf), la soprano spagnola Ruth Iniesta (Liù); la direzione d’orchestra era affidata al famoso Placido Domingo, mentre la regia e le scene portavano la firma di Franco Zeffirelli (con riferimento all’edizione del 2012).
I nostri posti erano poltrone di platea (una ventiseiesima fila che ci è costata ben 137 euro a testa…). Non era la prima volta che vedevo uno spettacolo all’Arena (il 23 aprile 2016 ero stato per ben altra occasione, cioè il concerto di Baglioni e Morandi); era però la prima volta che a Verona assistevo a un’opera lirica, per cui avevo una grande aspettativa e una certa emozione.
Per di più l’opera prescelta, “Turandot”, mi è stata particolarmente cara sin da ragazzo, per la bellezza delle melodie orientaleggianti, il fasto dell’orchestrazione, la ricchezza di spunti melodici famosi; mi aveva sempre colpito anche il fatto che fosse l’ultima opera di Puccini, incompiuta a causa della sua morte nel 1924.
Avevo dunque grandi aspettative: ricordavo il cupo inizio con il tetro bando intonato dal Mandarino su sole tre note (“Popolo di Pekino, la legge è questa: / Turandot la Pura sposa sarà / di chi, di sangue regio, / spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà. / Ma chi affronta il cimento / e vinto resta porga alla scure la superba testa!”), l’acuto a freddo della schiava Liù invano innamorata del suo padrone (“Liù…. chi sei?” “Nulla sono…. una schiava, mio signore…” “E perché tanta angoscia hai diviso [con mio padre]?” “Perché un dì…. nella reggia, mi hai sorriso”), la prima apparizione di Turandot con il fulmineo innamoramento di Calaf (“Non senti? Il suo profumo è nell’aria! È nell’anima! O divina bellezza, meraviglia!”), la sfida accettata con il triplice suono del gong, il secondo atto con la sontuosa apparizione del vecchissimo imperatore Altoum (“Diecimila anni al nostro imperatore!”), i tre enigmi risolti uno dopo l’altro dallo sfidante, la sconfitta della livida Turandot che non vorrebbe rispettare i patti, la sfida del giovane pretendente alla principessa (“Tre enigmi m’hai proposto, e tre ne sciolsi. / Uno soltanto a te ne proporrò. / Il mio nome non sai. Dimmi il mio nome. / Dimmi il mio nome prima dell’alba, e all’alba morirò”), nel quale affiora per la prima volta il tema di “Nessun dorma”; e poi il terzo atto, con la romanza più famosa (“Nessun dorma”), seguita dalla cattura e dalla morte di Liù (personaggio amatissimo da Puccini) per amore del suo padrone; infine, nella parte finale musicata da Franco Alfano, la rivelazione del nome da parte di un Calaf ormai fiducioso di aver conquistato l’amore di Turandot e infine l’esplosione della passione della principessa (“Padre augusto, / conosco il nome dello straniero! / Il suo nome è… Amor”).
Il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni è tratto da una fiaba teatrale del drammaturgo settecentesco veneziano Carlo Gozzi; per la prima e unica volta nella carriera di Puccini, l’opera è di ambientazione totalmente fantastica (l’azione, come dice la partitura, si svolge «al tempo delle favole»). Per realizzare la partitura il Maestro si documentò, studiò, utilizzò perfino un carillon cinese fornitogli da un barone che era stato in Cina, riprese di sana pianta melodie tradizionali cinesi come “Mo Li Hua”, trasformata nel primo tema di Turandot (“Là sui monti dell’Est / la cicogna cantò. / Ma l’april non rifiorì, / ma la neve non sgelò”) e affidata a un coro di voci bianche.
Ma la composizione dell’opera fu molto tormentata: dapprima emersero difficoltà legate alla struttura dell’opera (con animate discussioni con i librettisti) e al personaggio della gelida e sanguinaria principessa Turandot (che doveva nel finale trasformarsi in un’amante appassionata); in seguito si manifestarono purtroppo i gravi problemi di salute del Maestro, cui fu diagnosticato un tumore alla gola. In seguito a una terapia radiologica tentata a Bruxelles presso il prof. Louis Ledoux, Puccini (nonostante l’intervento fosse definito “perfettamente riuscito”) morì il 29 novembre 1924, all’età di 65 anni, per un’emorragia interna.
“Turandot” dunque era rimasta incompiuta: la partitura fu completata dal compositore napoletano Franco Alfano (su incarico della casa editrice Ricordi) con la supervisione di Arturo Toscanini; tuttavia la sera della prima rappresentazione alla Scala di Milano, il 25 aprile del 1926, Toscanini fermò l’esecuzione a metà del terzo atto, subito dopo la morte di Liù, dicendo agli spettatori: “Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto”.
Purtroppo lo spettacolo di venerdì sera non è stato all’altezza delle aspettative.
Anzitutto mi sono rammaricato di un’acustica poco efficace, soprattutto a causa di un’orchestra troppo “frenata” dal direttore nelle sue espansioni sonore; per di più le esili voci di alcuni interpreti non arrivavano oltre le prime file (penoso Riccardo Fassi nella parte del vecchio Timur, ma inadeguato anche il Calaf di Yonghoon Lee).
La regia tanto decantata di Zeffirelli, poi, si basava tutta sull’oleografica ostentazione di grandiosità (centinaia di comparse, costumi splendidi e coloratissimi, scenografie monumentali); mancava però ogni idea, ogni soluzione originale, ogni trovata che vivificasse una rappresentazione soltanto didascalica.
Ma la delusione peggiore (e lo dico con la mia scarsa competenza di figlio di un musicologo) è stata la direzione di Placido Domingo, che mi è parsa assolutamente inadeguata; e perché non sembri che la mia impressione sia troppo severa, riporto qui alcune righe della recensione di Martino Pinali (www.operaclick.com, 29.08.22): “Senza girarci troppo intorno, la recita di Turandot diretta da Placido Domingo è stata, dal punto di vista musicale, la peggiore serata del 99° Arena Opera Festival. […] Ripresosi dall’abbassamento vocale che gli aveva impedito di portare a termine la serata di gala a lui dedicata, […] Domingo ha affrontato tutta quanta l’opera senza cedimenti o malori, ma la serata è stata portata a termine con grande difficoltà di tutte le maestranze coinvolte, che si sono ritrovate abbandonate in più di un’occasione a loro stesse. Gli scollamenti tra buca, palco e banda interna erano frequenti, le singole sezioni degli strumenti fuori sincrono, lo stesso dicasi per il coro e i solisti che navigavano a vista in un mare orchestrale in cui Domingo, che doveva essere il capitano di questa nave in piena tempesta, si è rivelato il guastatore che l’ha fatta affondare. La sua si è rivelata una direzione senza alcun personalismo ma anche senza alcun rispetto per le agogiche della partitura, massacrata da improvvisi tempi scattanti cui seguivano tempi dilatati e sfinenti per le voci dei cantanti”.
Secondo il recensore (e sono d’accordo con lui), la maldestra direzione di Domingo ha accentuato le difficoltà dei due protagonisti: “A farne le spese sono stati soprattutto i due protagonisti, Oksana Dyka, una Turandot appannata, spinta al limite delle sue capacità vocali, e Yonghoon Lee, un Calaf dal timbro asprigno e dall’emissione forzata: i due interpreti sono arrivati decisamente sfibrati alla fine della scena degli enigmi, e avevano ancora un terzo dell’opera da affrontare”.
Si salvavano solo la Liù di Ruth Iniesta e gli esperti Ping, Pang e Pong (Biagio Pizzuti, Matteo Mezzaro e Riccardo Rados); quanto all’imperatore Altoum (Chris Merritt), vero è che la partitura lo vuole vecchio e decrepito, ma le sue battute risultavano appena sussurrate, per di più con una dizione assai imprecisa.
Come conclude il recensore, “Il pubblico, scaldatosi a poco a poco nel corso della recita, ha tributato un successo ai limiti del fanatismo agli applausi finali (manco a dirlo, è stato ovviamente richiesto e concesso il bis di “Nessun dorma”), con ovazioni per tutti, ma proprio per tutti, Domingo compreso. Il suo trionfo personale è stato però appannato dalla protesta coraggiosa dell’Orchestra di Fondazione Arena di non alzarsi in piedi ai saluti finali nonostante il consueto gesto del direttore che li invitava a ricevere gli applausi del pubblico”.
Vorrei aggiungere che il bis di “Nessun dorma” è risultato ancora peggiore rispetto alla prima esecuzione: nel complesso, Yonghoon Lee mi ha fatto rimpiangere tutti gli altri interpreti da cui ho sentito eseguire questa celebre e splendida romanza, che non meritava di essere bistrattata così.
Quanto agli applausi del pubblico, non c’è da meravigliarsi: gli spettatori, sempre meno competenti di Musica (uso la maiuscola), considerano splendido ciò che un tempo avrebbe provocato fischi e attirato pomodori; dietro di me, addirittura, alcune ragazze emettevano gridolini di ammirazione degni di un concerto di Sfera Ebbasta….
Peccato. Sarà per un’altra volta e per un’altra Turandot.
Un’ultima considerazione. L’integrazione conclusiva di Franco Alfano a me piace tantissimo: il Maestro napoletano, rispettoso degli appunti di Puccini, attento a riprenderne e svilupparne i temi musicali, ubbidiente alle direttive degli editori e ostacolato dalle fisime di Toscanini, era un compositore di alto livello; e in diversi passaggi (soprattutto nel difficilissimo duetto fra Calaf e Turandot) evidenzia a mio parere soluzioni musicali raffinatissime e molto moderne per i tempi, forse non del tutto percepite e riconosciute dalla critica.
P.S.: Come si legge oggi (30.08.22) su “Il fatto quotidiano”, «il cantante lirico Placido Domingo all’Arena di Verona il 25 e 26 agosto in “Verdi Opera Night” e “Turandot”, ha fatto fiasco. Non solo con il pubblico ma anche con i musicisti che lo hanno accompagnato. […] Sarebbero state le ripetute amnesie durante il “Macbeth”, la sua uscita di scena prima del finale per un “improvviso abbassamento di voce”, il non rispetto della partitura nella “Turandot” a decretare la mediocrità di una prova molto attesa dagli spettatori. Fatto sta che, fra fischi e ovazioni del pubblico, l’orchestra nel gala del 25 agosto ha rifiutato persino lo stand up finale. Una débâcle totale, moltiplicata per due serate. “Prove imbarazzanti”, si legge in una nota del SLC (Sindacato Lavoratori della Comunicazione) Cgil. “A dire il vero – puntualizza la nota – l’esito delle serate, viste le imbarazzanti prove, era stato previsto e denunciato dagli stessi artisti del coro, professori d’orchestra e tecnici di palcoscenico, i quali avevano subito capito che Domingo non era all’altezza della sua fama e del compito affidatogli da Fondazione Arena di Verona”. Il risultato delle due serate? “È stato pessimo e soltanto la professionalità delle maestranze artistiche e tecniche di Fondazione Arena ha permesso che l’evento non si tramutasse in un gigantesco fallimento”. Nella “Turandot”, prosegue la nota, si puntualizza la difficoltà dell’opera, “tanto più se non vengono fatte le dovute prove”. E si fa riferimento al fatto che “le maestranze si sono sentite abbandonate a loro stesse in più di un’occasione, rischiando più volte di andare tutti gambe all’aria”. Insomma, per confermare che le masse artistiche erano compatte nella consapevolezza della mediocrità dello spettacolo, l’orchestra ha rifiutato di alzarsi in piedi al cenno del direttore. Quell’invito a ricevere gli applausi che inorgoglisce. L’affondo sulla recita di “Turandot” non lascia adito a sfumature: “Molti professori d’orchestra e artisti del coro non hanno dubbi: quella del 26 è stata una delle serate più umilianti per tutto il settore artistico”.
A rendere ancora più effervescente la situazione è arrivata anche una lettera al primo cittadino di Verona, Damiano Tommasi. Da parte delle associazioni femministe del territorio. Sostengono che Domingo, da oltre cinquant’anni nei cartelloni areniani, risponderebbe a criteri di scelta commerciali più che artistici. “L’integrità della persona non ha prezzo, non può essere barattata con compensazioni economiche”, scrivono. E chiedono esplicitamente di cancellare il nome dell’artista madrileno dal cartellone dell’anno prossimo, alla luce dei reati per cui è indagato. Quali? “Domingo – spiegano – è già stato messo sotto accusa per molestie sessuali nel 2019 e nel 2020 si è dimesso dalla carica di direttore dell’Opera di Los Angeles, dichiarandosi pentito e chiedendo scusa alle vittime, salvo poi ritrattare tutto poco dopo”. E nel 2022? “Ora è sottoposto ad altre gravi accuse: sarebbe membro di una setta che riduce le donne a schiave sessuali, sotto l’influenza di un sedicente guru e maestro di yoga: le indagini sono in corso in Argentina”, specificano».