“Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”

A poche ore dalla conclusione dell’anno, è quasi inevitabile rileggere un celebre dialogo in prosa di Giacomo Leopardi, il “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”.

Appartiene alle “Operette Morali” e risale al 1832; lo stile è semplice e colloquiale, rendendo la lettura agevole per tutti.

Giacomo Leopardi

Il dialogo si svolge in una strada, affollata per le festività di fine anno. Un venditore ambulante pubblicizza a gran voce (in siciliano si dice, meravigliosamente, “abbannìa”) i suoi almanacchi per il nuovo anno: «Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi».

Ma che sono gli “almanacchi”? La parola deriva dall’arabo “al-manakh” e indica un “prontuario astronomico”; come precisa il vocabolario del mio docente di Glottologia di Genova, prof. Emidio De Felice, l’almanacco era una “pubblicazione periodica, per lo più annuale, contenente, oltre al calendario, notizie astronomiche e previsioni meteorologiche relative ai vari giorni dell’anno”.

Col tempo il termine ha indicato altre cose, ad es. pubblicazioni di carattere vario che raccolgono articoli e dati (economici, artistici, statistici, sportivi, genealogici). Qui, semplicemente, il venditore vuole piazzare i calendari dell’anno nuovo, calendari ricchi (come era quello di Frate Indovino) di motti, proverbi, consigli, fasi lunari, ricette, ecc. ecc., per tutti i mesi dell’anno.

Un “passeggere” (oggi diremmo “un passante”) viene abbordato dal venditore: «Bisognano, signore, almanacchi?».

Il “passeggere” poteva comprarlo e basta, oppure rifiutarlo; ma evidentemente non era un passante qualunque, evidentemente aveva in corpo tanta amarezza, tanta bile, forse anche tanta rabbia per un anno andato particolarmente male.

Dunque, il passante domanda al suo interlocutore: «Credete che sarà felice quest’anno nuovo?».

Che dovrebbe rispondere il venditore? Se dicesse che le sue previsioni sono nere, nessuno acquisterebbe l’almanacco; la risposta dunque è scontata: «Oh illustrissimo sì, certo».

Socraticamente, ottenuta una risposta, si va avanti per provocarne un’altra; il “passeggere” allora, con una punta di ironico cinismo, inizia un serrato interrogatorio. Come sarà il nuovo anno? «Come quest’anno passato?». No, risponde il venditore, sarà molto più felice: «Più più assai». Ma come allora, come due anni fa? No: «Più più, illustrissimo».

Qui il passante potrebbe stufarsi, comprare l’almanacco o rinunciarci e andare via; invece insiste, chiede al povero diavolo a quale anno in particolare vorrebbe che somigliasse il nuovo anno: «Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?».

Qui la fiducia del venditore comincia a incrinarsi: «Signor no, non mi piacerebbe».

Un punto a favore del passante, che insiste con le domande: da quanti anni il tizio vende almanacchi? Da molto tempo: «Saranno vent’anni, illustrissimo».

E allora, è possibile che tra questi venti anni non ce ne sia nessuno cui il venditore vorrebbe che il nuovo anno sia simile? Il brav’uomo annaspa: «Io? non saprei».

Ormai il colloquio si è trasformato in una sorta di incalzante interrogatorio. Il passante chiede ancora: «Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?».

C’è da supporre che qui l’ambulante stia un attimo a pensare, ripercorra con la mente giorni e giorni della sua vita, illusioni, speranze, sogni, gioie, dolori, amarezze; la risposta alla fine è desolante: «No in verità, illustrissimo», no, non c’è “nessun anno in particolare” che sia stato tutto, totalmente, splendidamente, assolutamente felice.

A questo punto il “passeggere” si gioca la carta dell’ovvietà: «E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?». E il venditore, genuina espressione della speranza popolare, non può che essere d’accordo: «Cotesto si sa».

Il passante allora fa una domanda assurda, “impossibile”: «Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?».

Che meravigliosa proposta, degna di un Dottor Faust! Chi non risponderebbe affermativamente a questa richiesta? Infatti il venditore, illuminandosi in volto, forse con un breve sospiro malinconico, replica: «Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse».

Magari! Rivivere la propria vita da zero, ripercorrere il cammino già fatto, magari con il senno di poi, con la saggezza tardiva del domani! Rinascere, essere di nuovo bambino, poi giovane, poi adulto, poi anziano, ancora una volta, ancora una volta! Rivivere tutto il nostro percorso di vita, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro… Un sogno.

Ma il sogno viene infranto dalla nuova domanda del passante: «Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?».

Ah, questo no: «Cotesto non vorrei».

Il passante ribatte allora in tono provocatorio: «Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?».

Rivivere la stessa identica vita? Ripercorrere i dolori già vissuti? Ritrovare le persone care perdute per poi riperderle? Tornare inesorabilmente a invecchiare, ad avere sempre più acciacchi, ricordi e dolori? Di nuovo? Varrebbe la pena di “rifare la stessa vita”? Il venditore riflette e risponde desolato: «Signor no davvero, non tornerei».

La domanda successiva del passante è solo apparentemente banale: «Oh che vita vorreste voi dunque?».

Che potrebbe rispondere il povero venditore? Forse con una battuta alla Vasco: «Voglio una vita maleducata / di quelle vite fatte, fatte così / Voglio una vita che se ne frega / che se ne frega di tutto sì / Voglio una vita che non è mai tardi / di quelle che non dormono mai / Voglio una vita di quelle che non si sa mai”. Ma una risposta del genere è troppo lontana dalla mente semplice dell’uomo, che più umilmente risponde: «Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti».

Dunque, come conferma trionfante il “passeggere”, “una vita a caso”, di cui non si sa nulla prima, come nulla sappiamo dell’anno nuovo; e le sue conclusioni mescolano argutamente il pessimismo più nero con un ottimismo di facciata: «Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. […] Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?».

E se all’inizio il venditore aveva risposto con sicurezza assoluta («Oh illustrissimo, sì certo»), ora si limita a un laconico “speriamo”.

Non c’è altro da dire; e il passante chiede “l’almanacco più bello”; ne riceve uno da trenta soldi, lo compra e si allontana. Il venditore riprende il suo richiamo, forse con una nota strozzata in gola: «Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi».

Come giustamente notava un critico di tanti anni fa, il venditore di almanacchi e il “passeggere” sono entrambi, in realtà, proiezioni sdoppiate dell’animo di Leopardi, come di chiunque di noi: “da un lato la ragione che indaga, dall’altro la vita che vuole essere comunque vissuta”. C’è qualcosa di pirandelliano “ante litteram”, in questo vitalismo a tutti i costi che fa a pugni con l’amarezza profonda per la “Natura matrigna” e per la sorte terribile dell’intero universo (“forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale”).

Come sempre, leggere Leopardi, nonostante il fascino delle sue pagine, produce un desolante senso di tristezza. Meglio dunque reagire come il semplice venditore di almanacchi, meglio dire “speriamo”, meglio ribadire che “la vita è una cosa bella”, perché “cotesto si sa”.

Meglio buttare nella spazzatura il 2023 e salutare con fiducia il 2024 (ah, a proposito: ormai si dovrebbe dire “venti ventiquattro”; ma io, benché nato nel “diciannove cinquantaquattro”, mi rifiuto tenacemente di chiamare così gli anni).

L’anno nuovo, come tutti gli anni, ci darà “una vita a caso”, di cui sarà meglio “non saperne altro avanti”. Ma trenta soldi per un po’ di speranza saremmo tutti disposti a spenderli…Buon anno!

PS: l’Operetta Morale che abbiamo riletto in realtà riproponeva una riflessione che Leopardi aveva inserito alcuni anni prima nel suo “Zibaldone”, in data 1° luglio 1827: “Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla né più né meno quale la prima volta. L’ho dimandato anco sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a rivivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno […]. Nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti”.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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